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 2017  ottobre 09 Lunedì calendario

Bruno Giordano, il figlio pacato di Trastevere rinato accanto a Maradona

A chiunque piaccia il calcio l’essenzialità di Bruno Giordano dovrebbe essere cara. Mai un gesto eccessivo o fuori misura, un virtuosismo fine a se stesso. Mai plateale. Il bardo Valentino Zeichen diceva che i suoi movimenti e il suo modo di mettere il corpo prima di ricevere il pallone e al momento di calciarlo avrebbero dovuto essere proposti nelle scuole come modelli basici, poi si correggeva aggiungendo che quelle cose non si insegnano. La fluidità e il guizzo imprevedibile, in effetti, non si traducono facilmente in lezioni, in assiomi, e assistervi (oltretutto, in poche frazioni di secondo, perché Giordano eseguiva senza alcun anticipo o preparazione i suoi numeri, che un istante dopo erano svaniti nell’aria, la palla liberata al compagno in posizione migliore o già in fondo al sacco, senza che né i difensori né il pubblico avessero avuto il tempo di capirci qualcosa) non serve purtroppo a impararli. Semmai, questo sì, ad ammirarli, a esserne incantati.
Intendiamoci, Giordano non era un giocatore superveloce, uno di quei frenetici ossessi che si vedono oggi nelle rassegne di Eurogol, con la loro entusiasmante quanto talvolta grottesca sovrabbondanza di finte e doppi passi. Guardandolo trattare la palla, si aveva la percezione di qualcosa che non fosse solo uno scatto muscolare più rapido di quello degli avversari. Pur essendo compatto e potente, Giordano vacillava, ondeggiava, proprio come il più incantevole e geniale attaccante moderno, venti centimetri più alto di lui, Marco van Basten: sì, ondeggiava come il cigno di Utrecht, con le spalle alla porta, come sul punto di perdere l’equilibrio, a destra e a sinistra, in modo che il difensore non avesse modo di sapere in anticipo da quale lato si sarebbe girato. Perché appena piroettava di centottanta gradi guadagnando quel mezzo metro sufficiente ad avere la visuale della porta, o almeno di uno spicchio di essa, eccolo pronto a calciare, già in posizione perfetta, una postura del tutto naturale, elegante, non sbruffona, non acrobatica; e con i palloni di allora occorreva calciare davvero bene per trasformare in gol un tiro qualsiasi. Dicevo prima: mai plateale. È strano, tenendo conto della sua estrazione e della sua popolarità tra i tifosi increduli, i quali solo quindici anni dopo, con la Lazio di Cragnotti, avrebbero visto scorrazzare all’Olimpico campioni di quel rango (naturalmente Nesta e Stam, Nedved, Bobo Vieri, l’immenso Verón, Hernán Crespo – anche se il mio pallino era e resterà Jugovic´, detto “Mezzasquadra”, per non parlare dei forse minori ma inesauribili Conceição e Almeyda e Fuser – be’, come negarlo, mai più comparse delle furie del genere, in biancoceleste…), tenendo conto di quanto Bruno Giordano avrebbe avuto facile gioco e pieno diritto a tuffarsi nel mare di adorazione e bearsi e cullarsi sulle sue onde come gloria locale, ebbene, è singolare come non abbia ceduto a quella tentazione, mai abbia avuto l’indulgenza di atteggiarsi (e di giocare) da idolo della piazza, puntando cioè sulla micidiale miscela funambolismo+ campanilismo, che nei tifosi crea dipendenza come le droghe. Ci sono casi di giocatori anche molto forti che campano su questa gloria. In parole più spicce, ecco, Giordano avrebbe potuto confermarsi come classico bullo trasteverino ed essere venerato anche solo per il profilo gladiatorio, e per il suo vanto di prodotto a chilometri zero. A Roma questa tentazione è fortissima, soprattutto in mancanza di soddisfazioni di più alto profilo. E invece nulla di tutto questo, anzi: un fare quasi sempre sommesso, semplice e alieno dalla retorica.
Come ce le racconta anno dopo anno Giancarlo Governi, con la pazienza del biografo che sa di dover dar conto dei passi falsi, significativi quanto o forse ancora di più che le stagioni felici, anche la vita e la carriera di Bruno Giordano hanno ondeggiato, vacillato. Si contano sulla punta delle dita i calciatori di grande talento che hanno avuto una carriera così poco lineare. Si porta spesso l’esempio di Cassano, ma così si va subito fuori strada. Non c’era nulla di capriccioso o di svogliato in Giordano, bensì, seminati lungo la sua strada, eventi drammatici: la serie B, la squalifica, un incidente gravissimo, il quasi-fallimento della squadra, il disordine familiare… bastava anche uno solo di questi ostacoli non superati per fare di lui il classico esempio di campione virtuale, di genio incompleto o inespresso, quello di cui, mentre inclina verso i trent’anni, si dice con un’alzata di sopracciglia «da ragazzo era un fenomeno, aveva tutto, ma poi…».
Poi c’è stata finalmente la consacrazione.
In tutta onestà posso dire che sono stato molto contento, anzi felicissimo, quando Bruno Giordano è rinato come calciatore con la maglia del Napoli e lì ha trovato qualcosa che lo ripagasse almeno un poco delle occasioni perdute, circonfuso dall’alone di Diego Armando Maradona, formando insieme al vizioso asso argentino e a Careca l’attacco più spettacolare e proficuo mai visto giocare: pura fulminea intelligenza pratica, che si traduceva in una marea di gol, e senza bisogno di annoiare con la retorica dei duemila passaggi e passaggetti che alcuni trovano chissà perché sublime, mentre per me hanno reso il gioco del calcio troppo simile alla sua sterile replica in videogioco.
Io francamente non capisco l’odio verso i calciatori che sono andati via dalla tua squadra, né la simmetrica ideologia del calciatore- bandiera. Personalmente ho continuato a seguire con trepidazione la carriera dei miei laziali, ovunque essi si fossero trasferiti. Ho esultato quando Nedved ha vinto il Pallone d’oro (ancora grazie, grazie, Pavel, per quella girata contronatura, che ci ha consegnato l’ultima Coppa delle Coppe…), mi emozionarono le gesta del Laudrup maturo, che quando era da noi si faceva togliere la palla appena tentava un dribbling, e ogni volta un po’ mi vergogno dei fischi che accolgono allo stadio i nostri ex campioni, inclusi quelli rivolti al malmostoso Candreva. Ho sempre avuto in leggera antipatia Lichtsteiner, è vero, ma come non ammettere che alla Juve è stato per anni implacabile, imparando pure a fare gol sbucando dal lato corto dell’area dove l’aveva condotto quella sua corsa fanatica! E persino quel pennellone sgraziato di Libor Kozák, ancora vado a cercarmelo per sapere cosa fa, dove si trova, se segna ancora i suoi gol improbabili dopo aver spedito in infermeria almeno un mediano e uno stopper a capocciate. Per finire con il vero e proprio “gemello” di Bruno, Lionello Manfredonia, eh già, il gemello “borghese” di Giordano: anche se non bello a vedere come Nesta, il più forte e risolutivo difensore che io abbia mai visto muoversi all’Olimpico, stroncando (sì, stroncando è la parola giusta) ogni velleità d’attacco degli avversari.
(Per gentile concessione di Fazi Editore)