9 ottobre 2017
In morte di Aldo Biscardi (non visibile)
Antonio Dipollina per La Repubblica
Tra un mese avrebbe compiuto 87 anni ma quelli che vantava erano i 37 del Processo, reclamando record mondiali, sostenendo di aver superato in longevità tv anche David Letterman, esibendo attestati da Guinness. Era Aldo Biscardi e lo conoscevano tutti. Era proverbiale, forse un fumetto, era surreale e praticissimo, dilagante e senza remore, era il calcio parlato specchio del paese tifoso dal lontano 1980. Nella Raitre targata Angelo Guglielmi dove si vendeva l’anima purché ci fosse narrazione (già allora) finì nel calderone anche il calcio: e lo fece Biscardi, il lunedì sera, decidendo che i Bar Sport, fiorentissimi, del paese intero dovessero convogliare per una sera tutti quanti in tv, lieve ebbrezza compresa. Impossibile resistere al biscardismo dilagante che diventava tale e che, nei primi anni di trasmissione, rinchiudeva in quello studio tv una valanga di big del pallone – a cominciare dal sommo Gianni Brera – e dove si faceva legge e opinione, sempre sotto la guida attentissima del conduttore.
Che era diventato tale dal 1983, limitandosi all’inizio a vaghi interventi dalla regia ma il senso è che l’aveva inventato lui, il Processo, e non sono pochi quelli che lo ricordano a Paese Sera, glorioso quotidiano assai di sinistra nella Capitale, nella metà degli anni Settanta, a costruire il primo Processo su carta, convocando il lunedì in redazione qualche big, facendoli parlare a ruota libera e riempiendo il giorno dopo le pagine sportive del giornale. Una specie di prova generale che, una volta trasportata in tv, dettò legge per anni, con giochi a metà tra il circense e la convocazione di intellettuali tifosi, con ospiti alla Carmelo Bene o alla Giulio Andreotti (memorabile una puntata sui destini di Falcao alla Roma): per non dire dei Mondiali dell’82 – riascoltare quelle fasi raccontate al Processo è un’esperienza mistica. Fino a quando un decennio dopo suonarono le sirene della pay-tv, un’epoca era tramontata e Biscardi iniziò un pellegrinaggio da decine di tappe, nel senso di tv, portandosi appresso il Processo. E incorrendo in quello che è il vero stop, ossia l’anno di Calciopoli, intercettazioni che lo registrano mentre cerca di tenere a bada, diciamo, accondiscendente un certo Luciano Moggi che dettava argomenti e modi di moviole. Era quel calcio lì e non furono pochi a commentare «E che c’è di male?». E poi finì come finì.
I Processi degli anni seguenti vanno in calando brusco, quasi introvabili in canali periferici, e sono animati da personaggi che porteranno sempre avanti il biscardismo come modo di vita (vedi l’avvocato Taormina che ieri ha commentato: «Da lassù darà una mano a far funzionare la Var»). E stasera, essendo lunedì, ci sarà ancora un Processo di Biscardi perché anche senza di lui, i suoi figli ne stanno curando la riedizione su 7Gold. Un abisso di distanza dai tempi d’oro, con il calcio e lo sport ufficiali che via via hanno preso le distanze (il presidente del Coni Malagò ha ricordato ieri le sue battaglie «curiose e folkloristiche»): ma ai tempi, che tempi quelli, era un’altra storia, con il teatrino settimanale a sfornare autentico circus stracolmo di trovate e battaglie e facezie ad altezza d’uomo, senza ritegno alcuno e con drammaturgia ridondante: definitivo, nell’anno 2000, il processo (vero) per diffamazione che gli arbitri intentarono a Biscardi, con il medesimo che si presentò esibendo memoria difensiva in cui il concetto era: “In questo programma facciamo a chi la spara più grossa, sono sketches e in quanto tali tra un’invenzione e l’altra non ci può essere diffamazione”. Tesi accolta dai giudici, assoluzione.
La gag di oggi è quella di ricordare come Biscardi se ne sia andato dopo aver vista realizzata la sua battaglia più insistita, quella per la moviola in campo. Non sono poche le interviste in cui se ne prese vagamente i meriti a livello mondiale, definendo il Var «Un inno alla democrazia» e questa è la parte buffa di tutto quanto. Ma gli agguati della nostalgia sono micidiali, stanno piovendo ovunque attestati di come fosse tutto più bello una volta nonostante Biscardi o magari anche per merito suo. Impossibile peraltro razionalizzare una storia così: e quando scatta il Blob dei suoi momenti magici e delle frasi impossibili e dei congiuntivi a perdere (già ieri sera su Raitre proprio un Blob apposito) o la sterminata aneddotica tramandata per via orale tra colleghi e conoscenti, non ce n’è davvero per nessuno.
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Andrea Scanzi per il Fatto Quotidiano
È morto Aldo Biscardi, e il cordoglio si è rivelato subito trasversale e pressoché unanime. Un aspetto rilevante, considerando che la persona scomparsa – ieri mattina al Policlinico Gemelli di Roma – era da molti ritenuta un mezzo ignorante, trafficone e non di rado equivoco. Ignorante non lo era di sicuro, casomai ci giocava. Equivoco talora lo è stato, si direbbe quasi sempre deliberatamente: sapeva che, così facendo, il gioco avrebbe funzionato. Se l’obiettivo massimo di un personaggio noto è quello di entrare nell’immaginario pubblico, Biscardi ha stravinto. Ha inventato un programma durato più di trent’anni e divenuto iconico.
Ha creato parole in un grammelot tutto suo (“sgub”, “bbombe”, “denghiu”). Ha anticipato l’idea della donna-valletta (e non è un vanto, come per altre sue invenzioni). Soprattutto: ha codificato un nuovo genere televisivo. Anticipando ciò che Funari avrebbe applicato alle fin lì barbose tribune politiche, Biscardi portò il bar calcistico in Rai. Ovvero nel contesto più pantofolaio. Un azzardo vero, che da lui neanche ci si sarebbe aspettati. Nato il 26 novembre 1930 a Larino (Campobasso). Laureato in Giurisprudenza, fratello di un politico e senatore Ds (Luigi). Il suo è un apprendistato giornalistico – che preferisce subito alla carriera legale – come tanti: Il Mattino, Paese Sera. Segue i primi mondiali di calcio nel 1958: non avrebbe più smesso.
Nel 1979 passa alla Rai. L’anno successivo, come vicedirettore del Tg3, lancia Il processo del lunedì. Dal 1983 passa alla conduzione. Nel 1993 passa a Tele+ non senza strascichi polemici con la Rai, che si tiene il marchio. Così Biscardi gli cambia nome: Il processo di Biscardi. Ovvero casa sua. Una casa dove la verità fattuale – sempre ammesso che nel calcio esista – non è che un optional. Quel che conta è solo la canizza.
L’opinione, sempre più sbilenca e urlata. Biscardi è l’anfitrione compiaciuto, che finge di mediare ma che in realtà alimenta l’agone: “Non parlate più di tre alla volta”, ma se erano trecento andava bene lo stesso (anzi meglio). Dopo Tele+ passa a Telemontecarlo e quindi La7.
Calciopoli lo travolge, non del tutto ma un po’ sì. Nessuna rilevanza penale, ma l’Ordine dei Giornalisti lo sospende sei mesi per alcune telefoniche con Luciano Moggi. Biscardi non ci sta e lascia l’Ordine. Non è più ufficialmente “giornalista”, e del resto anche secondo la Corte di Cassazione – che si pronunciò dopo le svariate querele per diffamazione – il suo programma “non era giornalistico”.
Ultimamente Biscardi si vedeva in tivù minori, oppure come inviato autoironico a Quelli che il calcio. La sua fase dorata ha coinciso con Ottanta e Novanta, quando il suo salotto ruspante era sbeffeggiato dalla critica, ma tutti (quasi tutti) facevano gara per andarci. Ci gravitò pure Carmelo Bene e fu meraviglioso. Se Paolo Valenti aveva creato uno stralunato ma garbato club col suo 90esimo minuto, Biscardi puntò tutto sull’esagerazione. Sulla dimensione pienamente circense: non lo si guardava per informarsi, ma per ridacchiare e vedere fino a dove si sarebbero spinti. Una gara, triviale ma innocua, a chi la sparava più grossa.
In questo, come direttore d’orchestra del Gran Circo Barnum, è stato bravissimo. Così bravo che certi suoi spezzoni su Youtube, come pure quelli di Maurizio Mosca, spopolano ancora. Non è solo nostalgia: è come se, in Biscardi, il trash avesse mantenuto una dimensione umana. Prima del troppo obbrobrio attuale. Prima di andarsene ha aspettato che il mondo del calcio, con l’introduzione del Var, gli desse ragione. Voleva la moviola in campo: l’ha avuta.
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Gigi Garanzini per La Stampa
Se ne è andato da vincitore, con la moviola in campo. Il sogno di una vita, e di una carriera televisiva, che era diventato nel tempo una battaglia, nato all’indomani sera del celeberrimo gol di Turone annullato alla Roma sul campo della Juve. Eravamo agli albori del «Processo del Lunedì», nato da un’idea di Enrico Ameri cui Biscardi, realizzandola, aveva cavallerescamente concesso la conduzione delle prime stagioni: e non era certo tipo, il rosso Aldo che allora vegliava sul programma dall’alto della regia e pareva un San Giovanni decollato, da farsi sfuggire una polemica che avvelenò i rapporti non solo tra le due società, ma anche tra le città. Nacque dunque per caso, perché la ragione sociale dei lunedì di allora era la demolizione di Enzo Bearzot. Non che la Nazionale del Vecio, nel cammino verso la Spagna, giocasse poi quel gran calcio. Ma a parte quel che abbiamo oggi sotto gli occhi, la virulenza degli attacchi era tale che spesso, il martedì mattina, il marciapiedi di via Washington a Milano dove Bearzot abitava era solcato da scritte minacciose, e la segreteria telefonica intasata di insulti. Il trionfo azzurro di Madrid fu dunque, per il «Processo» e la sua compagnia di giro, una Caporetto da cui chiunque avrebbe fatto fatica a rialzarsi. Chiunque ma non Biscardi, che al primo appuntamento d’autunno riprese come niente fosse con un bell’applauso, e con uno di quei suoi discorsi da cui, tra un aggettivo strampalato e l’altro, si evinceva che erano state le critiche del «Processo» il vero propellente per il titolo.
Lì si capì, una volta per tutte, che quello era il genere di calcio-parlato più amato dagli italiani. Perché non erano la credibilità o la competenza a sostenere l’audience, e a farla sempre più decollare: bensì la possibilità di vedersi rappresentati sul piccolo schermo da gente che le sparava grosse, di sentire tutto e il contrario di tutto in un vociare indistinto in cui, alla fine, ciascuno recitava una parte. Con il capocomico Aldo padrone assoluto della situazione, che nei momenti più convulsi fingeva con lo sguardo di reclamare moderazione e con il movimento delle mani, non inquadrate, aizzava i toni verso il diapason. E quando proprio non si capiva più nulla raccomandava di non parlare tutti insieme, al massimo due-tre alla volta.
Una leggenda. Che figliò un numero impressionante di tentativi di imitazione, in ogni tv privata grande o piccola del paese. Dove ancora oggi va regolarmente in onda, a tutte le ore del giorno senza escludere quelle della notte, la pornografia del pallone. Come accade sul web, in quei forum di tifosi o presunti tali, che Biscardi ha anticipato di un buon quarto di secolo.
Il primo incidente di percorso, posto che quello dell’82 si era invece rivelato un volano, arrivò sul finire degli Anni 90, quando Aldo il rosso aveva ormai lasciato la Rai, portando con sé la sua creatura. Quella volta gli arbitri si arrabbiarono per davvero e si arrivò in tribunale. Dove Biscardi, non potendosela cavare con il bell’applauso, si difese dicendo più o meno che in trasmissione niente era affrontato sul serio, e che trattavasi di show tutto inventato, a cui nulla di penalmente rilevante poteva essere imputato. Era iniziata la discesa. Culminata sei anni più tardi nelle intercettazioni di Calciopoli, da cui si ricavava, senza margini di dubbio, che la celeberrima moviola del «Processo» era taroccata a piacimento.
Sic transit gloria mundi. Ma quella Biscardi non l’ha mai inseguita, gli bastava e avanzava la popolarità. Gli toccherà invece un posto nella storia del pallone, come uno dei padri della moviola in campo. Anzi, il primo.