La Stampa, 9 ottobre 2017
La battaglia per i talenti. Boom di iscritti alla Siae ma si litiga sul monopolio
Siamo ancora un paese di creativi? E, se la risposta è sì, siamo in grado di valorizzare la creatività o la stiamo uccidendo?
A 26 anni il bergamasco Andrea Tonoli ha vinto tre «Akademia Music Award» a Beverly Hills ed è stato nominato miglior artista «New Age Ambient» degli Hollywood Music Award. E se in Italia lo conoscono in pochi, in rete le conoscono tutti. Quando si esibisce con «Il piano degli dei», caricando di intensità la sua faccia da divinità marina in versione surfista con codino, il popolo dei suoi seguaci invade il sito internet con frasi distaccate tipo: «La tua melodia ha dentro di sé un’epica così forte che mi fa venire i brividi ogni dieci secondi» – Karen Hanson. Oppure: «Please, torna negli Stati uniti e sposami» – Joyce Bonilla. O anche: «Una melodia che accarezza l’anima» – Prisca Trivella. Melodia scrivono. Mai musica.
Lui, compositore autodidatta, a 15 anni ha deciso che i dischi non li voleva più solo ascoltare, voleva farli, convinto che gli suonassero dentro. Così ha cominciato a studiare il pianoforte elettrico per conto suo. Quando il padre gli ha suggerito di andare a lezione, Andrea ha risposto: no, grazie, faccio da solo. Ha messo da parte il rock e Michael Jackson e si è trasformato in una curiosa sintesi tra Einaudi e Allevi, con una aggiunta di Lee-ru-ma, meglio noto come Yiruma, geniale compositore di Seul sposato con miss Corea. Niente parla al cuore più del pentagramma. Poi ha postato tutto su internet e si è limitato ad aspettare. Finché sono arrivati due talent scout americani e hanno detto: bello. E quel bello lo hanno fatto girare per il pianeta. Il successo è arrivato così. «La creatività non la governi. Succede e basta. Certo, si deve essere curiosi». È un caso limite, il suo?
L’esercito dei cervelli
Forse. Ma neanche troppo, perché, secondo la Siae, che garantisce l’associazione gratuita agli under 31, e negli ultimi due anni ha registrato quattordicimila nuove iscrizioni, il piccolo esercito di cervelli e talenti che defluiscono goccia a goccia nel grande lago dei diritti d’autore, non è mai stato così combattivo. Un’energia creativa stimolata dal proliferare dei talent televisivi e dal moltiplicarsi di piattaforme tecnologiche in grado di sostituire orchestre, teatri e sale di registrazione. È la democratizzazione della corsa verso la gloria. Musica latina, reggaeton, disco, rap e trap (un sottoprodotto del rap meno attento alla metrica), persino cantautori. «Con la musica si può vivere, ma bisogna attingere a diversi bacini: la vendita, lo streaming, i concerti o, come nel mio caso, le colonne sonore. I diritti d’autore sono fondamentali. Io ho cominciato con Soundreef. Poi sono passato alla Siae», dice Tonoli. Ma qual è il loro ruolo di Siae (con i suoi 85mila iscritti) e di Soundreef (con i suoi 8mila)? E qual è il terreno di scontro?
Uno studio di Ernst Young, diffuso in gennaio, segnala che l’industria creativa e culturale italiana ha registrato nel 2015 un giro d’affari di 47,9 miliardi di euro (il 2,96%del Pil), con una crescita dei ricavi del 2,4% rispetto all’anno precedente. «È un settore industriale che potrebbe generare risultati ancora maggiori – il valore potenziale è di 72 miliardi di euro – se riuscisse a contrastare minacce come il value gap e la pirateria», sottolinea Ernst Young.
Il «value gap» è il divario tra quanto viene generato dai contenuti creativi in rete e quanto viene restituito a chi ha creato quei contenuti. I principali beneficiari di questa differenza sono gli intermediari tecnici: motori di ricerca, aggregatori, social network e servizi di cloud publbici e privati. Ma se il nuovo mondo è dominato dagli algoritmi e dagli unicorni della Silicon Valley, chi ha la capacità di trattare con loro? In Italia c’è la Siae. E, dal 2011, Soundreef. Concorrenza che sarebbe vietata, che l’Europa auspica, che il governo in maniera ambigua dice di voler concedere e che Soundreef riesce comunque a fare grazie a un discusso escamotage: sede legale a Londra e sede tecnica a Roma. Un pasticcio, che introduce altre due domande apparentemente in contraddizione. La prima: è possibile immaginare mercati senza concorrenza? La seconda: autori ed editori ci guadagnerebbero dalla polverizzazione delle società di intermediazione?
Lo scontro Siae-Soundreef
Al quarto piano di un palazzo elegante di Galleria del Corso a Milano, Filippo Sugar, editore e produttore discografico, vice presidente Siae dal 2013 al 2015 e presidente da marzo dello stesso anno, replica alle domande sostenendo che il primo quesito – è possibile immaginare un mercato senza concorrenza? – è posto male e che il secondo ha una risposta semplice. «La polverizzazione penalizzerebbe gli autori e gli editori». Davvero? «Basta guardare i dati internazionali. Le società collettive che agiscono nei singoli paesi in un regime di monopolio reale o sostanziale hanno un impatto sul pil più alto di quello che hanno in paesi come gli Stati Uniti (al trentesimo posto di questa classifica in cui l’Italia è ottava) dove la polverizzazione è forte. Il bene da tutelare è l’opera. Se autori ed editori non sono uniti, fanno fatica a trattare non solo con i colossi americani, ma anche con la Rai, con Mediaset o con i gestori dei locali». Secondo Sugar, l’intermediazione deve rispondere al principio del «One Stop Shop». Chi compa le licenze si deve rivolgere a un solo interlocutore per il pacchetto completo. È importante perché una canzone può essere firmata anche da sette autori. Se ognuno di loro si iscrivesse a una società di gestione, chi compa i diritti sarebbe obbligato a trattare con sette agenzie diverse. Considerando che la Siae tutela 48 milioni di opere, sarebbe il caos. Analisi ragionevole, che però non mette a fuoco il problema. E cioé: perché Soundreef non dovrebbe avere il diritto di fare concorrenza alla Siae?
L’ambiguità del governo
La legge 633 del 1941 stabilisce che in materia di diritti di autore può esistere un solo intermediario. E quell’intermediario è la Siae, che in Italia agisce in regime di monopolio. L’alternativa per un autore è quella di gestire personalmente i propri diritti o di affidarsi a una società straniera. Una visione che non piace all’Europa e che il governo sta rivalutando. Nel 2014 la «direttiva Barnier» invitava i paesi membri dell’UE a uniformare le regole nazionali, sostenendo che «i titolare dei diritti dovrebbero poter scegliere liberamente l’organismo cui affidarne la gestione». Una direttiva che non impone il pluralismo. Ma lo presuppone. La lettera inviata a settembre dal governo italiano alla Ue, firmata dal ministro Dario Franceschini e dal sottosegretario Sandro Gozi, recita: «(...) fermo restando il monopolio legale della Siae per la attività di intermediazione (...) il governo intende proporre al parlamento per la legge di bilancio 2018, una disposizione che consenta in Italia, a tutti gli organismi di gestione collettiva operanti nel territorio dell’Unione, non solo di rappresentare i propri associati ma anche di procedere direttamente alla raccolta dei diritti, senza l’obbligatoria intermediazione della Siae». Non sfugge l’ambiguità della formula che, promettendo di migliorare il quadro, nelle righe successive allude alla mancanza di fine di lucro degli organismi che raccolgono i diritti d’autore nei paesi europei, senza così sciogliere il nodo Soundreef, che il fine di lucro ce l’ha. Non è difficile profetizzare nuovo lavoro per i tribunali. Auguri.
Al telefono, Davide D’Atri, che di Soundreef è il fondatore, chiarisce tre aspetti per lui centrali. «Il monopolio è indifendibile sia da un punto di vista commerciale che legale. Siamo pronti a sottoporci agli stessi obblighi imposti agli organismi di gestione collettiva. E anche ad applicare le stesse tariffe della Siae». In cambio di che cosa? «Della possibilità di dimostrare che siamo più bravi di loro. Devono essere i cantanti a scegliere con chi stare».
Mi servirebbe sapere
«Mi servirebbe sapere/ Se l’altra notte/ Quando hai detto che sei stata tanto bene/ Eri sincera». Ad Antonio Maggio, trentenne cantautore pugliese, l’ispirazione per vincere Sanremo giovani nel 2013 è venuta prendendo l’autobus. Un click. «Mi è partito il ritornello in testa e l’ho salvato come memo vocale. Nove volte su dieci funziona così. Niente è studiato a tavolino». Può darsi. Ma il terreno della creatività va curato costantemente. I frutti arrivano poi quando decidono loro. Siae o Soundreef? «Siae». Perché? «In questi anni è cambiata radicalmente in meglio. Ma nel nostro paese è molto facile affossare le eccellenze per poi rimpiangerle. Anche per quello che riguarda i generi musicali ci capita più spesso di essere influenzati che di influenzare. Io rivendico una nostra differenza». Insegui Dalla e De Gregori? «Probabilmente loro erano dei geni e noi no. Inizialmente inseguivo la possibilità di vivere di musica. Forse ce l’ho fatta».
Con i suoi «Bamboo», Claudio Gatta, ha avuto successo facendo una cosa che non fa nessuno. Percuote cose tipo pentole, spazzolini elettrici, plastica o pistole ad acqua inseguendo suoni non convenzionali. Sembra una follia. Invece è bellissimo. «L’ispirazione mi è venuta ascoltando le vibrazioni prodotte da un righello». Vibrazioni è la sua parola preferita. Non vive di concerti, che pure sono pieni. Ma insegnando musica ai bambini. A suo modo è un visionario. Siae o Soundreef? «Soundreef». Perché? «Per me la domanda è: perché esiste ancora la Siae? Soundreef è efficiente e moderna. Io suono, loro risolvono i problemi». Così la domanda torna: conta di più la libertà di scelta o il peso di chi segue i tuoi interessi?
Portatori di luce
Se gli si chiede quale sia la strofa di una canzone che ama di più, Giovanni Caccamo, vincitore di Sanremo Giovani nel 2015 e terzo a Sanremo big nel 2016, dice: «C’è un tempo perfetto per fare silenzio di Ivano Fossati». Scoperto da Battiato, autore per Malyka, Emma Marrone o Francesca Michielin, a 27 anni ha capito come conciliare la poesia con la prosa. La prosa. «Ho scelto la Siae. E per me è fondamentale che resti il monopolio. Solo se siamo assieme abbiamo un peso». La poesia è il resto della vita. «A 11 anni ho perso mio padre. Aveva un cancro che lo ha torturato per tre anni. Quando sei un bambino non è facile vedere il pilastro della tua vita che si accartoccia su se stesso». Poteva rimanere accartocciato anche lui, che in camera passava dai vinili di Mozart a quelli di Cristina D’Avena. «Invece ho capito che mio padre mi aveva lasciato in eredità la vita. La cosa più bella che esista. Il dolore mi ha portato la luce». E lui la luce continua a cercarla nelle persone. «La musica per me è una vocazione non una passione. Quando i ragazzi che vogliono fare questo mestiere mi chiedono: come hai fatto ad avere successo?, tendo a pensare che siano partiti col piede sbagliato. Se qualcuno invece mi chiede: come faccio a tirare fuori la musica che sento dentro?, allora lo guardo con occhi diversi». E in quello sguardo diverso c’è la differenza che passa tra chi vive la musica come un diritto assurdo e chi la vive come un privilegio.