La Stampa, 8 ottobre 2017
Così le donne delle cosche allontanano i figli per salvarli
È un cambiamento lento, quasi impercettibile quello che si fa largo dentro le famiglie della ‘ndrangheta. «Una piccola grande rivoluzione culturale», la definisce il presidente del tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. Perché a guidare la rivolta contro i codici criminali della mafia calabrese ora sono le donne che affidano i propri figli nelle mani dello Stato.
Il grimaldello per tentare di scardinare il sistema mafioso è rappresentato dall’iniziativa che i magistrati calabresi portano avanti da cinque anni. L’idea – battezzata non a caso “Liberi di scegliere” – è tanto semplice quanto complessa da realizzare: strappare i figli dei boss delle ‘ndrine ai propri nuclei familiari per dare loro la possibilità di costruirsi, altrove, un destino diverso. La chiave giuridica sta in un’interpretazione estensiva degli articoli 330 e 333 del codice civile che prevedono la decadenza della responsabilità genitoriale per il padre o la madre che violino i doveri connessi. «Genitorialità – sottolinea Di Bella – non significa libero arbitrio educativo: se il minore è indottrinato a metodi e azioni criminali, ne si pregiudica la crescita esponendolo a rischi come il carcere o la morte». I ragazzi vengono destinati a famiglie o comunità fino al diciottesimo anno. Da maggiorenni sono essi stessi a scegliere se proseguire il loro percorso lontano dal nucleo d’origine o tornare al paese natio. In entrambi i casi, assicurano i promotori del progetto, i risultati sono lusinghieri.
«Sino a non molto tempo fa – racconta orgoglioso Di Bella – il Tribunale era considerato un’istituzione nemica dai clan della ’ndrangheta. Ora, passato il messaggio che lavoriamo davvero per regalare a questi ragazzi l’opportunità di un futuro diverso, sono le madri stesse a vederci come l’ultimo baluardo di speranza». Se all’avvio del progetto appena una donna su dieci accettava di collaborare, ora a non opporsi ai provvedimenti di allontanamento o addirittura a segnalare i casi dove s’impone un intervento sono le madri stesse in ben nove casi su dieci. E almeno dieci donne, ad oggi, hanno chiesto di essere trasferite in località protette insieme ai loro figli.
A luglio la firma di un protocollo ad hoc predisposto dal ministero della Giustizia ha suggellato il successo del programma, applicato sempre più diffusamente anche in distretti come quelli di Napoli, Catania o Catanzaro. Per dare più forza e autonomia al sistema – che ad oggi si regge sul sostegno essenziale della rete di Libera, sotto la guida dell’avvocato Vincenza Rando – ora però la richiesta dei promotori è chiara: una legge in grado di destinare le risorse necessarie per costruire percorsi educativi e lavorativi adeguati: per i ragazzi, ma anche per le madri-coraggio motore della rivolta silenziosa che insidia le ’ndrine.