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 2017  ottobre 08 Domenica calendario

La favola dei boss che non uccidono i bimbi

Tra le molte «favole» che le mafie si sono inventate, per raccogliere consenso e accrescere reputazione, quella a cui hanno fatto maggior ricorso, forse, riguarda la violenza sui bambini.
Hanno sempre blaterato, quelli che trasmettono i miti mafiosi ai più giovani, alle nuove leve, di leggi – tanto ferree quanto osservate – mai violate in favore dell’infanzia. Persino Tommaso Buscetta, icona del pentitismo, raccontò che una buona dose di motivazione, nella scelta di abbandonare Cosa nostra, lui la trovò nel fatto che, appunto, la mafia non era più quella di una volta, non era più quella «che i bambini non si toccano neppure con un dito».
E abbelliva i suoi racconti con aneddoti avvincenti.
Disse che un boss da uccidere era riuscito ad evitare la morte perché ogni volta che usciva di casa lo faceva portandosi in braccio il suo figlioletto, facendo scattare – così – la regola d’ingaggio che impediva di sparare se si correva il rischio di colpire anche l’innocente. In effetti è avvenuto, qualche volta, che un’esecuzione venisse rinviata per la presenza di bambini sulla scena dell’agguato. Ma non quando la «necessità» o la «ragion politico-mafiosa» doveva prevalere su ogni residuo barlume di umanità.
I bambini hanno pagato il conto, com’è accaduto agli adulti: questa la verità che ci racconta la storia, antica e recente, delle mafie: in Sicilia, in Calabria, in Campania, in Puglia, insomma nel nostro Meridione. Sono 108 i bambini uccisi dalla mafie, esattamente come se fossero adulti. Chi ha raccontato per mestiere ed ora porta i capelli bianchi, molti di questi 108 se li ritrova stampati nella memoria e nella coscienza. E il tempo non è riuscito a farne sbiadire l’orrore. Morti nelle faide familiari, come Paolino Riccobono ritrovato sotto un albero di limoni a Tommaso Natale, borgata alle porte di Palermo, assassinato per pareggiare i conti che i Riccobono avevano in sospeso coi Cracolici. Alla camera ardente solo donne in nero, perché i maschi erano già riuniti per pianificare altre vendette. Morti colpiti da furia cieca, come Dodò Gabriele a Crotone, assassinato al posto di un adulto.
Eppure l’inganno della mafia buona che non ammazza i bambini ha resistito a lungo e, forse, continua a resistere. Basti pensare al piccolo Claudio Domino (di cui molto si è parlato), il cui assassinio «costrinse» Cosa nostra a dichiarare ufficialmente la propria estraneità all’orrendo crimine che «non appartiene alla nostra tradizione». Era l’epoca del maxiprocesso di Palermo e il boss-portavoce, Giovanni Bontade, pur di respingere ogni responsabilità sull’accaduto, non si preoccupava di infrangere un altro tabù altrettanto importante: quello che negava la stessa esistenza della mafia. Per la prima volta nella sua storia, Cosa nostra emetteva un comunicato ufficiale, ammettendo così di essere un gruppo organizzato.
Oggi, però, grazie all’apporto di centinaia di collaboratori di giustizia, l’inganno della mafia buona non regge più. La storia del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito rapito e ucciso, ha azzerato il consenso mafioso. Sarà difficile recuperare, per Cosa nostra, almeno fino a che si conoscerà l’ultima richiesta fatta dal bambino, prima di morire, al proprio carceriere: «Sento l’odore dell’erba e della primavera. Sento l’odore del mare, toglimi queste bende e fammelo vedere l’ultima volta».