il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2017
Mosca e Washington la gara a chi vende più armi a re Salman
Una batteria anti-missile non si nega a nessuno, specie a chi la paga: non ai sudcoreani; non agli israeliani; e neppure ai sauditi. A loro, gli Stati Uniti ne hanno appena venduto uno stock da 15 miliardi di dollari: Dipartimento di Stato e Pentagono hanno vistato e notificato al Congresso la cessione a Riad di una partita di Thaad, Terminal high altitude area defense. Con raro tempismo, l’annuncio è venuto lo stesso giorno che re Salman, il monarca saudita, concludeva a Mosca l’acquisto del più avanzato sistema di difesa aerea russo, l’S-400, per un controvalore di tre miliardi di dollari.
La lista della spesa negli Usa è dettagliata: l’Arabia saudita vuole 44 lanciatori Thaad, 360 missili intercettori, 16 gruppi di stazioni mobili tattiche di comando e controllo e sette radar che vanno insieme al sistema. Una – piccola – parte degli affari militari per oltre cento miliardi di dollari impostati in primavera tra l’Amministrazione Trump e la casa reale saudita.
La visita a Mosca di Salman e i baratti armi-energia conclusi nell’occasione, con la licenza all’Arabia saudita per la produzione dell’ultima versione dei kalashnikov (ak 103), sono oggetto di dubbi e di patemi a Washington, dove ci s’interroga sui ‘giri di valzer’ sauditi in una fase di passaggio del potere generazionale. Agli Usa, poi, in genere non piace che Paesi amici e alleati comprino armi russe: e, dunque, ha suscitato malumori allo stesso modo l’intenzione della Turchia di acquistare degli S-400.
Uno può chiedersi dove vadano a parare i sauditi: comprano armi a bizzeffe a Washington e Mosca e non azzeccano una mossa in politica estera. La guerra nello Yemen per ristabilire il potere sunnita a fronte di un’insurrezione sciita sostenuta dall’Iran s’è rivelata un vero e proprio disastro militare e politico, oltre che una tragedia per la popolazione locale; e l’isolamento commerciale e diplomatico del Qatar, accusato di collusione con l’Iran e con gli integralisti, sta fallendo; l’emirato se la cava alla grande e s’è guadagnato qualche simpatia internazionale.
Ma l’Arabia saudita resta una pietra angolare degli Stati Uniti in Medio Oriente. Ai sauditi, Trump non nega quasi nulla: dalla ‘danza delle spade’ durante la visita a Riad in maggio all’attesa denuncia dell’accordo sul nucleare con l’Iran (mossa, questa, che piace soprattutto, a Israele). Dal canto suo, la Russia sta incassando i dividendi della sua attiva presenza diplomatica e militare in Medio Oriente, specie in Siria. La visita di re Salman a Mosca è stata preparata da una missione in varie capitali della Regione del ministro degli esteri russo Lavrov. Con la differenza che Mosca riesce a mantenere buoni rapporti con l’Iran e ad agganciare l’Arabia saudita, mentre Washington gioca Riad contro Teheran.
E l’Iran è un osso duro: nega di essere disponibile a ridimensionare i propri programmi missilistici e precisa che l’accordo sul nucleare concluso nel 2015 non riguarda i missili. Teheran è pure certa che i suoi piani non violino la risoluzione Onu 2231. A pensare che la politica estera degli Stati Uniti si va a cacciare in vicoli ciechi non sono pochi: meno di un americano su quattro, il 24%, ritiene che l’Unione stia andando nella giusta direzione, tra minacce di guerra alla Corea del Nord, marce indietro sull’Iran e su Cuba e, sul fronte interno, dichiarazioni ambigue ai suprematisti bianchi.
Il dato emerge da un sondaggio per l’Ap. Rispetto a giugno, c’è un calo di dieci punti, molto forte fra i repubblicani (meno della metà approvano l’operato del presidente).
Il 70% degli americani pensa che Trump non sia equilibrato; una maggioranza non lo ritiene un leader onesto o forte; e oltre il 60% ne disapprova la gestione dei rapporti razziali, dell’immigrazione, della politica estera.