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 2017  ottobre 08 Domenica calendario

APPUNTI SULLA CATALOGNA PER LA GAZZETTA DELLO SPORT

Andrea Nicastro per il Corriere della Sera
Il punto

Niente bandiere questa volta in Plaça de Sant Jaume, il cuore del potere catalano. La manifestazione di ieri esponeva federe di cuscini, magliette, palloncini, colombe di cartone, tutti rigorosamente bianchi. Era il debutto pubblico della terza via tra nazionalismo catalano e patriottismo spagnolo. «Sono qui per il dialogo e la pace» spiegava Neus, una giovane con in braccio un isterico fox terrier. Lo slogan, «Parlem», era di tanto in tanto tradotto nel castigliano «Hablamos», parliamo. Un bambino chiede alla mamma se davvero sono tutte spose quelle signore vestite di bianco, la piazzetta medievale è piena, l’aria è di festa, ma non ci saranno più di 4-5 mila persone. La polarizzazione pro e contro l’indipendenza si coltiva da anni ed è difficile accendere la fiammella proprio sul rettilineo d’arrivo. L’iniziativa è partita sui social da un’agenzia pubblicitaria di Madrid ed è diventata virale esordendo oggi anche in molte altre città di tutta la Spagna. Il corteo bianco rappresenta probabilmente la maggioranza silenziosa, gente che si appella al buon senso e alla convivenza civile, ma così silenziosa e a-partitica da risultare ininfluente.

A Madrid, invece, la piazza ha mostrato anche l’altra Spagna, quella che vuole salvare l’unità del Regno ad ogni costo. Un mare di bandiere spagnole. È stata la prova generale per la manifestazione anti indipendenza di oggi a Barcellona. Diversi i cortei annunciati. Sotto i riflettori il premio Nobel Vargas Llosa e la regista Isabel Coixet. Ma ci sarà anche un corteo del Partido Popular del premier Marano Rajoy e altri di «patrioti» che riempiranno i pullman di vari angoli di Spagna. «Arrivano i cavernicoli — dicono sprezzanti i secessionisti di Barcellona —. Vedremo se sapranno rimanere pacifici come abbiamo sempre fatto noi». Gli indipendentisti progettano di starsene in casa o andare al mare. I leader discutono su forma e sostanza: le 48 ore dalla proclamazione del voto stanno scadendo e la Dichiarazione unilaterale di indipendenza è un obbligo di legge, ma forse è meglio violare una norma anti costituzionale che non negare il tempo a mediazioni segrete. Ogni giorno può comunque essere quello decisivo per la dichiarazione unilaterale di indipendenza. «Una dichiarazione che non potrà avere alcun effetto» assicura il premier Mariano Rajoy in un’intervista al País «perché il governo centrale non lo permetterà». «La Spagna resterà Spagna a lungo. Mi appello ai catalani perché si allontanino da estremisti e radicali».


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Alfonso Dastis per il Corriere della Sera

La Spagna è una democrazia consolidata in cui vige lo Stato di diritto. Anche se l’immensa maggioranza dei lettori del Corriere della Sera conosce perfettamente l’ambito giuridico spagnolo e i suoi fondamenti, devo riconoscere che ho trovato alcune opinioni prive di informazione o influenzate da un racconto inconsistente, che mettono in dubbio il fatto indiscutibile della nostra solida democrazia. Ci troviamo di fronte a una situazione grave e a un tema complesso, motivo per il quale desidero affrontarlo con argomenti che contribuiscano a smontare le intollerabili falsità dette e scritte dagli irresponsabili che sottoscrivono questa sfida allo Stato spagnolo.

Vorrei contestualizzare gli eventi del primo ottobre. Il referendum di autodeterminazione convocato dal governo catalano era stato dichiarato illegale dalla nostra Corte costituzionale. Di fronte alla disubbidienza delle autorità catalane, le forze e i corpi di sicurezza dello Stato hanno agito con l’unico obiettivo di impedire una votazione illegale. Nonostante l’uso di immagini e cifre false, desidero chiarire che l’operato delle forze di sicurezza è stato guidato dallo scrupoloso rispetto dei diritti e delle garanzie, dalla prudenza e dalla proporzionalità e a difesa della convivenza pacifica. Non è stata una giornata facile per nessuno ma l’azione delle forze di sicurezza si è conclusa soltanto con due feriti ricoverati, il cui stato evolve favorevolmente e ai quali auguro una rapida guarigione. Le altre cifre fornite sui feriti suscitano seri dubbi e contribuiscono soltanto ad alimentare un racconto propagandistico smentito dalla realtà nuda e cruda.

Nulla di tutto ciò sarebbe successo se il 7 settembre, in una vergognosa seduta parlamentare, i secessionisti non avessero derogato unilateralmente — pur non contando sulla necessaria maggioranza e violando tutte le procedure parlamentari — allo stesso Statuto di Autonomia della Catalogna (approvato in un referendum legale dai catalani nel 2006), e alla Costituzione spagnola del 1978, che venne ratificata in un referendum dal 90,5% dei catalani e dei cui sette relatori due erano catalani. In quel momento, l’indipendentismo, fino ad allora una legittima aspirazione di una minoranza, passò a diventare un’illegittima imposizione alla maggioranza dei catalani che si considerano anche spagnoli. Il «diritto di decidere» si è trasformato quindi in un traumatico «obbligo di decidere». E lo hanno fatto pur sapendo che il diritto all’autodeterminazione da parte del territorio non è permesso né dalla Costituzione spagnola né da nessuna Costituzione dei Paesi vicini. Pur sapendo che il diritto internazionale non permette l’invocazione unilaterale di questo principio per il caso della Catalogna, né per nessun altro territorio degli Stati membri della Ue. Pur sapendo che la stessa Ue sancisce nei suoi trattati il rispetto degli ordinamenti interni dei Paesi membri.

Tutto questo è stato detto dal governo della Spagna, ma anche dalle istituzioni dell’Unione Europea, le quali hanno ricordato ripetutamente che un’azione contro la Costituzione di uno Stato membro è un atto contro l’ambito legale di tutta la Ue. Come anche si è espressa praticamente la totalità dei leader dei Paesi a noi vicini, che si sono dichiarati a favore dell’unità costituzionale del nostro Paese.

Quale è stata la risposta del secessionismo catalano? Posizionarsi nella disobbedienza con azioni che dimostrano una vera connotazione antidemocratica. Brandendo una ridicola lista di false ingiustizie su cui l’indipendentismo ha basato la sua campagna e che si smontano con una semplice analisi della realtà catalana. Mi auguro che gli italiani non si lascino impressionare da quelle menzogne. Come potrebbe, una delle regioni più ricche e moderne d’Europa, essere una regione oppressa? No, né la Catalogna subisce una «spoliazione fiscale», né la lingua catalana, protetta dalla Costituzione, è oggetto di disprezzo; tutto l’opposto: si tratta oggigiorno dell’unica lingua nella quale si possono scolarizzare i bambini nelle scuole pubbliche. È anche sintomatico il tipo di appoggio internazionale che sta riscuotendo il secessionismo, da Nicolás Maduro a Nigel Farage. Non sembrano garanti del miglior livello.

Cosa ci riserva il futuro? Il re Filippo VI, in un messaggio fermo e deciso, ha fatto un doppio appello: al ripristino dell’ordine costituzionale e alla concordia tra gli spagnoli. Il presidente Rajoy ha ribadito la sua disponibilità a dialogare e a trattare, nel rispetto della legge. Sarà arduo se i secessionisti continueranno a costruire una realtà parallela fatta di menzogne ed esagerazioni, e se continueranno a creare fratture tra i catalani, incoraggiando i loro sostenitori a denunciare chi non segue il credo nazionalista. Sarà difficile, ma la Spagna è una democrazia solida e, come dicono qui in Italia, «ce la faremo».

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Mario Monti per il Corriere della Sera
Commento

Il conflitto tra Catalogna e Spagna è seguito con ansia in tutta Europa. Molti si aspettano che l’Ue intervenga come mediatrice, la criticano per non averlo ancora fatto.

Apparentemente sensata, la richiesta riflette in realtà una tendenza pericolosa: quella di caricare l’Ue di domande che essa non può soddisfare perché non rientrano nei compiti che gli Stati membri le hanno affidato nei Trattati. Le mancano perciò legittimità e poteri. Ogni volta che ci si aspetta dall’Ue ciò che essa non può dare, e qualche volta è la stessa Ue a creare poco responsabilmente attese che non è in grado di soddisfare, si creano le premesse per delusioni e frustrazioni.

Ciò ha molto contribuito alla frattura tra l’Ue e i cittadini, una frattura preoccupante, che non può trovare consolazione nel fatto che, come mostrano i sondaggi, in tutti i Paesi la sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche nazionali è ancora maggiore. I Trattati stabiliscono che «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale». Perciò, a meno che fosse Madrid a chiedere all’Ue di mediare tra Spagna e Catalogna, evenienza improbabile, un’iniziativa dell’Ue sarebbe in contrasto con i Trattati.

M a anche con la logica : come potrebbe l’Ue essere equidistante tra uno dei suoi Stati membri e una parte, per quanto dotata di elevata autonomia, di quello Stato? Se mai, la Svizzera, il Vaticano o una delle istituzioni non governative che nel mondo si occupano di soluzione di conflitti potrebbero proporsi come mediatori. Se una tale iniziativa dovesse nascere, ben venga e speriamo che abbia successo. Ma, sarebbe fuori luogo considerarla uno smacco per l’ Ue.

Del resto, supponiamo che l’Ue decidesse di intraprendere una mediazione tra Spagna e Catalogna e che il governo spagnolo non la bloccasse. Quale orientamento dovrebbe assumere?

Quello di Giulio Tremonti, che sul Corriere (6 ottobre) rimproverava l’Europa perché «non fa quello che potrebbe e dovrebbe fare — una guida politica — e ha fatto quello che non doveva fare, mirando negli ultimi 30 anni alla progressiva erosione degli Stati nazionali»? La mediazione dovrebbe allora proporsi, sembrerebbe, di limitare il più possibile l’erosione dello Stato spagnolo ad opera della Catalogna.

O l’Ue dovrebbe invece ispirarsi alla visione di Donatella Di Cesare, che sempre sul Corriere (5 ottobre) auspicava un intervento dell’Ue di «apertura alle rivendicazioni del popolo catalano», dato che «il limite dell’Europa non è quello di aver messo in questione la sovranità dei singoli Stati-nazione, bensì di non essere riuscita a scardinare dal fondo questa vecchia finzione»?

L’Ue è nata per favorire la pace. La sua azione per 60 anni, tra alti e bassi, ha contribuito in modo decisivo al mantenimento della pace tra i suoi Stati membri, benché tra molti di essi i conflitti fossero stati in precedenza la norma, non l’eccezione. L’attrattiva dell’ingresso nell’Ue è stata un forte incentivo per la pacificazione tra diversi Paesi candidati con gravi tensioni tra loro, come quelli dell’Europa centro-orientale; così come in seguito tra Grecia e Turchia per permettere l’entrata di Cipro; e oggi tra vari Paesi della ex Jugoslavia aspiranti a far parte dell’Ue.

In più occasioni l’Ue ha svolto anche azioni di mediazione e di sostegno a processi di pacificazione riguardanti due suoi Stati membri. È stato il caso dell’Irlanda del Nord (parte del Regno Unito) e della confinante regione della Repubblica d’Irlanda, su richiesta dei due Stati membri interessati. O ancora, per decenni, degli sforzi per trovare una composizione allo storico conflitto tra Regno Unito e Spagna in merito a Gibilterra.

Non sono certo mancati, infine, i casi di mediazioni svolte dall’Ue, da sola o con altre potenze, sul piano internazionale. Tra questi l’accordo con l’Iran, dovuto anche al grande impegno di Federica Mogherini. Ma in nessuno dei casi citati si è mai trattato di un intervento dell’Ue, non richiesto dallo Stato membro, per mediare tra quello Stato e una sua articolazione territoriale che mira alla secessione. Non si chieda all’Ue di fare irruzione sul campo ove si confrontano Madrid e Barcellona, anzi nell’arena ove si svolge questa corrida.

 
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Antonio Caño, Rafa de Miguel e Jorge Rivera per El Pais su Repubblica.
Intervista a Rajoy

Mariano Rajoy è consapevole del fatto che con la sfida indipendentista catalana affronta una delle situazioni più gravi nella storia della democrazia spagnola. Sono molte le voci che stanno chiedendo un’azione più decisa di fronte alla rapidità con cui la Generalitat e il Parlament si spostano verso una dichiarazione di indipendenza mentre nelle piazze continua la tensione. Il capo del governo sembra pronto ad utilizzare tutti gli strumenti che la legge mette nelle sue mani per evitare di rompere l’unità della Spagna.

Esiste un rischio che la Spagna si divida?

«No, affatto. La Spagna non si dividerà e l’unità nazionale sarà garantita. Utilizzeremo a questo fine tutti gli strumenti che la legge ci dà».

Che cosa farà il governo nel caso in cui la Catalogna si pronunciasse a favore dell’indipendenza?

«Impediremo che l’indipendenza si verifichi. Chiaro che prenderemo tutte le decisioni consentite dalla legge alla luce di come si evolvono gli eventi».

Incluso l’articolo 155 della Costituzione (contro lo status di regione autonoma, ndr)?

«Non escludo assolutamente niente di ciò che la legge consente. Tuttavia, devo farlo al momento giusto. L’ideale sarebbe che non si arrivi a dover riprendere soluzioni drastiche, ma perché ciò accada devono esserci delle correzioni da parte della Catalogna».

La Costituzione prevede altri strumenti oltre al 155: lo stato di emergenza o addirittura lo stato di assedio. In quale misura o in quale ordine lei pensa che dovrebbero essere applicati?

«Quello che il presidente del governo proporrà al Consiglio dei ministri non può essere reso noto prima. E, ovviamente, dovrò prima parlare con altre forze politiche».

Può il governo tollerare una dichiarazione d’indipendenza che non sia effettiva immediatamente, ma scaglionata, come tenta di fare il Parlamento catalano?

«No. Non esiste un governo al mondo che sia disposto ad accettare di dibattere sull’unità del proprio Paese o della minaccia all’unità del proprio Paese. Sotto il ricatto non si può costruire nulla».

Esiste un modo per impedire quel passo successivo? Può lo Stato impedire che avvenga l’atto di dichiarazione d’indipendenza?

«Dipende soprattutto dal presidente della Generalitat. Ciò che spetta al governo è procedere al suo annullamento e il far sì che non entri mai in vigore. In questo momento, il presidente della Generalitat ha convocato una sezione plenaria per parlare della situazione politica in Catalogna, non per parlare di una dichiarazione d’indipendenza. La questione non è all’ordine del giorno in questo momento, ma di questo non c’è certezza».

È preoccupato di come lei passerà alla storia dopo la crisi catalana?

«Non sono io colui che ha infranto la legalità, violato le leggi e voluto annichilire in sei ore una Costituzione – quella spagnola - e uno statuto di autonomia, quello catalano. Non sono io quello che ha stabilito una legalità parallela di transizione in quattro ore. Non so se passerò alla storia, ma quel che posso garantire è che l’indipendenza non avverrà».

La sfida dell’indipendenza preoccupa anche i Paesi vicini.

In Europa, in questi giorni, si sentono parole tremende nei media. Parlano di una Spagna che salta. Qual è il messaggio all’Europa?

«Direi che questa è la battaglia dell’Europa. Nel 2012, in Spagna è stata combattuta la battaglia dell’euro. E l’hanno vinta gli europei. Ora si combatte la battaglia dei valori europei, dobbiamo vincerla».

Però sembrate esservi concentrati più su una risposta giuridica invece che tentare una proposta politica attraente.

«È molto difficile negoziare con chi ha solo un obiettivo e non vuole cedere di un centimetro».

Non teme che il nazionalismo indipendentista faccia emergere un nazionalismo spagnolo?

«Difendere il proprio Paese non può mai rappresentare un rischio. Simboli come la bandiera, l’inno, le norme che disciplinano la convivenza sono cose che tutti hanno il diritto di difendere. E la Spagna negli ultimi tempi ha dato molti segni di moderazione, buon senso, equilibrio».

Ma dopo la prima forte reazione dello Stato, come le cariche della polizia del primo ottobre, l’unità è sembrata cominciare a sgretolarsi... pensiamo ai socialisti. Cosa succederà quando si prenderanno misure più drastiche?

«Devo dire che c’è un dialogo molto fluido con lo Psoe e Ciudadanos. È mio dovere far sì che questa unità non si rompa e che si ricomponga».

Il governo ha in questo momento un canale di comunicazione aperto con Puigdemont o Junqueras?

«L’unica cosa che il governo ha - e sa - è che non è possibile dialogare sull’unità della Spagna, né mediare o far diventare oggetto di negoziazione la minaccia di rompere l’unità della Spagna».

Su cosa è possibile negoziare?

«Nel quadro della legge si può negoziare tutto. Un’altra cosa è che si arrivi o no a degli accordi».

E si può partire subito con un negoziato?

«Fintanto che non si tornerà alla legalità, io certamente non negozierò. Il capo del governo di un Paese avanzato e democratico non può negoziare con chi la legge la lascia da parte. Appena ciò sarà rettificato avremo una situazione differente, diversa e normale. Come negli ultimi quaranta anni in cui si è negoziato su molte cose ».

Vale a dire che se Puigdemont rinuncia pubblicamente alla dichiarazione di indipendenza, lei sarà disposto a parlargli?

«No. Il signor Puigdemont ha una priorità ed è quella di parlare con il Parlamento della Catalogna. È evidente, dopo saremo in una situazione molto diversa».

Se gli imprenditori catalani si fossero mossi prima con più forza, come ora, il problema si sarebbe risolto prima?

«Questa è storia passata. Ciascuno agisce come ritiene».

© El País / Lena ( Traduzione di Guiomar Parada)

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Gianluigi Paragone per Libero
Le banche ne approfitteranno

Esattamente come in Grecia. Esattamente come in Gran Bretagna. Esattamente come avevano minacciato in Francia. Esattamente come avevano minacciato in Italia alla vigilia del referendum sulla riforma costituzionale. Puntuale anche in Spagna è arrivato lo spauracchio dei capitali che se ne vanno. I referendum secessionisti sono contra legem, la secessione del capitale invece è nelle logiche della globalizzazione. Così, mentre Madrid risponde a Barcellona in nome dell’unità (e volevo vedere che pure a Madrid fossero filo Catalunya… Quante cretinate passate per buone ci tocca sentire), i giornali spagnoli, e non, raccontano della fuga da Barcellona di banche e imprese. Esattamente come ci avevano raccontato per la Grecia - dove lo spauracchio era solo per gli sportelli bancari chiusi - e per la Brexit; solo che a Madrid, il governo castigliano - assai sensibile all’unità nazionale - ha fatto di più, ha approvato una legge che facilita le aziende nello spostamento della sede legale in altre regioni senza impazzire con la burocrazia. Gli interessi degli investitori vengono sempre prima degli interessi dei cittadini, anche a costo di penalizzare risparmiatori. Anche in Italia, come ricordavo all’inizio, l’ambasciatore americano Phillips arrivò a minacciare la fuga degli investitori americani in caso di vittoria dei No. Il No ha vinto e alla fine non s’è mosso nulla. Del resto perché dovrebbe essere altrimenti: i capitali vanno dove vengono trattati coi guanti bianchi, dove i loro capricci sono assecondati nell’illusione di portare lavoro e pil. I dati dimostrano che così non è. Se la Catalunya era uno dei principali motori economici in Europa, ci sarà stato un motivo: evidentemente l’autonomia di Barcellona aveva garantito maggiore appeal che altrove. Le altre regioni avrebbero potuto fare altrettanto, il governo di Madrid si sveglia adesso perché vuole umiliare i catalani, secondo la peggiore tradizione franchista. Bruxelles, che già ebbe modo di far sentire agli spagnoli il senso della fratellanza europea coniando l’espressione Piigs cioè maiali, ha deciso di appoggiare il debole Rajoy arrivando così a minacciare l’esclusione dall’euroclub di un eventuale Stato catalano (tra l’altro non si capisce il motivo: perché a prescindere l’Europa potrebbe escludere uno Stato?). Barcellona resterà un motore economico e non sarà l’acuirsi delle tensioni (che ovviamente nessuno spera perché quel che sta accadendo è la somma di due errori, quello di Rajoy e di Re Felipe IV peggiore di quello di Puigdemont) a demolire un contesto economicamente felice. La stampa catalana fa da cassa di risonanza di ciò che la finanza vuole e in un certo senso comanda: "Salta la banca" titolava El Periodico; «Cattivi presagi» o «Segnali d’allarme» scrivono gli editorialisti de La Vanguardia. I grandi marchi e le banche utilizzeranno questo spazio di crisi politica per strappare altre condizioni di favore, con la minaccia di restare o andarsene.

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Maurizio Molinari per La Stampa
La Catalogna dopo la Brexit

In attesa di sapere se la Catalogna lascerà davvero la Spagna, il referendum indipendentista ha già prodotto un effetto concreto: la coalizione dei partiti anti-europeisti può vantare un nuovo successo dopo la Brexit, evidenziando l’indebolimento degli Stati nazionali e dunque dell’Unione europea.

Basta guardare a nomi e sigle che hanno espresso aperto sostegno al referendum sul distacco di Barcellona da Madrid per rendersi conto di quanto sta avvenendo in Europa. Nigel Farage, ex leader dell’Ukip britannico che vinse il referendum sulla Brexit nel giugno 2016, ha ritrovato lo smalto di allora definendo l’intervento della polizia spagnola contro i seggi catalani «un’espressione della brutalità poliziesca europea» e Geert Wilders, leader del Partito della libertà olandese, aggiunge: «L’Ue è un luogo dove si esercita violenza contro i popoli». Heinz-Christian Strache, capo del partito di estrema destra austriaco Fpo, accusa l’Europa di «tacere sulla repressione in Catalogna» adoperando un linguaggio simile a Beatrix von Storch, eurodeputata dei tedeschi di AfD, secondo la quale «chi ama la democrazia deve prendere sul serio l’opinione dei catalani». E ancora: nelle Fiandre, Bart Laermans, deputato di Vlaams Belang, contrappone «la violenza della Guardia Civil» al «diritto di libertà dei catalani».
Si tratta di leader e forze politiche che, nei rispettivi Paesi, rappresentano formazioni estreme, anti-sistema ma accomunate dal definire il referendum catalano una «prova di democrazia», identificando nell’Unione europea la fonte primaria della «violenza esercitata da Madrid». Ovvero, se nel giugno del 2016 la variopinta coalizione anti-Europa trovò, quasi per caso, nel distacco della Gran Bretagna dall’Ue la prima dimostrazione che Bruxelles poteva essere sconfitta nelle urne, adesso il referendum catalano gli offre su un piatto d’argento ulteriori munizioni: l’immagine di un’Europa insensibile, o ancor peggio complice, delle «violenze spagnole» contro la libera volontà dei propri cittadini.
Ecco perché il tentativo di delegittimazione dell’Unione europea ha compiuto un passo avanti lo scorso 1° ottobre, offrendo ai partiti ultranazionalisti la possibilità di cavalcare una narrativa dove «Europa» è l’opposto di «democrazia». Si tratta del danno politico più serio causato dal referendum catalano: quella che prima di Brexit era una disordinata galassia di forze marginali ed estremiste, ora assume le caratteristiche di uno schieramento capace di contestare gli stessi principi fondatori dell’Ue. Se ciò può avvenire è soprattutto a causa della debolezza degli Stati nazionali che compongono l’Ue, guidati da leadership troppo spesso incapaci di comprendere lo scontento dei propri cittadini - come David Cameron in Gran Bretagna - o talmente miopi da ricorrere ai manganelli contro i cittadini - nel caso di Mariano Rajoy in Spagna - dimostrando di aver perso il contatto con le popolazioni che avrebbero dovuto rappresentare e governare.
Cameron e Rajoy purtroppo non sono casi isolati: i Paesi Ue abbondano di leader politici dei partiti tradizionali troppo lenti nel cogliere le ragioni del disagio che alberga in popolazioni scosse da diseguaglianze economiche, migrazioni di massa, terrorismo e una più generale percezione di carenza di protezione collettiva.
Poiché l’Ue è un’Unione fra Stati sovrani, più tali miopi politiche nazionali continueranno più sarà l’Europa a indebolirsi, consentendo al nazionalismo di risorgere in maniera sorprendente nello stesso Continente dove nel Novecento ha causato due conflitti mondiali, con milioni di vittime e devastazioni colossali.
C’è dunque un campanello d’allarme che risuona in Europa. Prima con Brexit e poi con il referendum catalano ci ha avvertito sul rischio che l’indebolimento degli Stati nazionali porti alla decomposizione dell’Ue sulla spinta di un ritorno alle identità primordiali delle piccole patrie che per venti secoli si sono combattute dall’Atlantico agli Urali. Tanto più accelera questo domino di stampo tribale, tanto più i rimedi devono essere rapidi, energici ed efficaci: i leader degli Stati nazionali, riuniti a Bruxelles nell’Ue come ognuno nella propria capitale, hanno la drammatica urgenza di prendere l’iniziativa per garantire ai cittadini la protezione che chiedono. Altrimenti saranno i risorgenti nazionalismi a farlo al loro posto.
Se è vero che le democrazie non hanno mai perso una guerra lo è anche il fatto che le democrazie scompaiono a causa dei propri errori - l’Italia liberale prima del fascismo, la Germania di Weimar prima di Hitler, il Cile di Allende prima di Pinochet - e ciò assegna ai leader che le guidano la responsabilità di rinnovarne costantemente stabilità e vitalità interna. Ecco perché bisogna ascoltare il campanello d’allarme che risuona da Barcellona.

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Francesco Olivo per La Stampa

Intervista allimprenditore De Porrata

«La repubblica ci conviene, saremo una Danimarca dell’Europa del Sud». Non tutte le imprese catalane vogliono scappare. L’esodo dei grandi non si ferma: e in vista di una dichiarazione d’indipendenza un altro colosso come Aiguas de Barcelona sposta la sua residenza fiscale a Madrid. Ma a ben guardare, ci sono tante ditte che restano e che, anzi aspettano con ottimismo una repubblica catalana. Ramir De Porrata Doria, lontane origini italiane, è il proprietario di Keonn, azienda che fornisce la tecnologia per le imprese che vogliono sviluppare il commercio online (tra i clienti ci sono Diesel e Moncler). De Porrata è indipendentista «de corazon», ma «anche de bolsillo»: pensa infatti che creare un nuovo Stato non sia solo giusto, ma anche conveniente.
Cosa ci guadagna la sua impresa con l’indipendenza?
«In infrastrutture, fisco e competitività».
Come?
«I lavoratori della mia azienda che vengono in treno, con la rete spagnola, arrivano tardi due giorni su tre. Sono ore di lavoro perse. Le infrastrutture contano. Se per andare in Giappone io potessi partire da Barcellona, senza scali a Madrid, sarebbe un vantaggio. E poi abbandoneremo la politica industriale spagnola, che ci penalizza».
È vittimismo?
«Ma no. La Spagna ha come modello quella di sostenere i grandi oligopoli. Qui si preferisce aiutare le piccole e medie imprese».
E il tema fiscale?
«Paghiamo il 21% delle imposte spagnole, ricevendo il 9. La Spagna investe con logiche politiche. Risultato: miliardi spesi in stazioni con trenta passeggeri al giorno e aeroporti senza voli». 
I mercati temono l’incertezza.
«I momenti importanti portano con sé un po’ di incertezza. Quando ho aperto l’azienda ho passato momenti di dubbio. La chiave sta nel far durare poco l’incertezza».
La finanza non lascia scampo, gli imprenditori sono spaventati.
«Quando la Spagna entrò nell’Ue molti avevano paura. Ma è stato un affare».
A proposito, potete restare senza euro, non è una prospettiva catastrofica?
«Non succederà mai. Un conto è l’Ue un altro è l’euro. Ci sono Paesi come Andorra, Montenegro e San Marino che hanno la moneta unica ma non fanno parte della Ue. Noi siamo già europei nessuno ci caccerà».
Con la dichiarazione d’indipendenza siete fuori, dice la Commissione.
«Se dichiarassimo l’indipendenza la Spagna la negherebbe, dirà che siamo parte del loro territorio, quindi dentro l’Ue. Passerà molto tempo prima che ci riconosceranno. Solo dopo una transizione saranno costretti a farlo».
Nel frattempo nuove frontiere, non è anacronistico?
«Non ci saranno frontiere: il 70% delle esportazioni spagnole passa da qui. Non conviene a nessuno».
A molti sembra un’avventura, anche perché la Catalogna ha un debito pubblico altissimo.
«Loro sono gli intestatari del debito. Quindi o ci sarà un negoziato, oppure se lo accolleranno per intero. Con tutti i rischi per la loro economia. Le banche gli imporranno di scendere a patti con noi». 
Tutti scappano, ci sarà un motivo?
«Precisiamo: questi vanno dal notaio e cambiano la sede fiscale. Non spostano una filiale, un lavoratore, nemmeno uno sportello del bancomat. Pagheranno altrove le tasse, ma quelli sono soldi che raccoglie lo Stato».
Torneranno?
«Quando ci sarà la repubblica, se vorranno operare qui dovranno aprire una nuova sede. Sì, torneranno tutti».


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Marta Dassù per la Stampa

Intervista a Joschka Fischer

«Le cause non sono europee ma le conseguenze lo sarebbero. È decisivo, per il futuro dell’Unione, che uno dei suoi membri essenziali, la Spagna, non vada a pezzi. Va trovata una soluzione nell’ambito della Costituzione; e sono gli spagnoli a doverlo fare. La sfida è però più generale: se prevalessero tendenze secessioniste, oggi in Catalogna domani altrove, l’Europa non reggerebbe».

Joschka Fischer, storico esponente dei Verdi tedeschi, è in buona forma. Al foro Aspen di Lugano, organizzato dall’ex segretario di stato Madeleine Albright, sostiene senza esitazioni che dopo le elezioni francesi e quelle tedesche l’Europa può farcela. La Brexit non ha generato un effetto domino: «Non ho buoni presentimenti su un accordo - dice - ma l’uscita di Londra non segnerà l’inizio della disgregazione europea». La Catalogna è a un punto critico, ma la razionalità dovrebbe prevalere: un accordo rafforzato di autonomia, con i suoi aspetti fiscali, è possibile. In Germania, il vecchio sistema politico ha subito una scossa: la fine della grande coalizione segna di fatto l’inizio del dopo Merkel. Ma l’accordo con Liberali e Verdi è più che probabile; la destra nazionalista di AfD, per la prima volta al Bundestag, avrà un peso secondario. 
«Sono abbastanza ottimista - afferma sorridendo Fischer - sul futuro della Germania. Il 13% ad Alternative für Deutschland è deprimente ma fisiologico, e non peserà granché. Angela Merkel, seppure alquanto indebolita, guiderà l’Europa insieme a Macron nei prossimi anni. Dovremo farlo, l’America non lo farà più al nostro posto. E vista la rapidità della storia, non abbiamo più tempo da perdere».
In una pausa del Convegno Aspen, Fischer spiega che i veri problemi, per Angela Merkel, verranno dalla Csu, il partito bavarese: «La mia previsione è che Liberali e Verdi siano pronti ad entrare al governo. Chi è difficile da gestire è la Csu, che ha preso una brutta botta elettorale. La Baviera ha una storia politica particolare, mantenere la maggioranza assoluta è per la Csu - le elezioni statali saranno nel 2018 - una questione vitale. Per il resto, la Germania sa benissimo che l’alternativa a una coalizione con Verdi e Liberali sarebbe una fase di caos e instabilità, che favorirebbe solo Alternative für Deutschland. La classe politica tedesca non vuole correre questo rischio».
Ci si può chiedere, tuttavia, se questa nuova Germania sarà più ripiegata su se stessa o giocherà la carta delle riforme europee con Macron. Le posizioni di partenza dei Liberali sembrano abbastanza rigide, in realtà: «I tedeschi - risponde scherzoso Fischer - sono comunque tedeschi, nel senso che restano testardamente ancorati alla loro cultura economica, fiscalmente conservatrice. Io non sono d’accordo, ma è la realtà. Guardando al dibattito sull’Eurozona, tuttavia, la questione decisiva non sono i soldi. La questione vera è la fiducia o meglio la sua mancanza. Solo ricostruendo un certo grado di fiducia fra Nord e Sud, le riforme saranno possibili: più flessibilità e solidarietà da parte del Nord in cambio di riforme strutturali e di rispetto delle regole da parte del Sud. Depurata dalla retorica elettorale, la visione di Christian Lindner, il leader dei Liberali, non è poi così distante da quella di Macron. Sono convinto che Germania e Francia siano pronte ad accordi pragmatici, per esempio sull’Unione bancaria. Il futuro sarà comunque basato su un’Unione a due velocità: purtroppo, potrei aggiungere. Ma è l’unico assetto possibile. E l’Italia deve farne parte. Parlando di Italia, mi preoccupa la mancanza di una politica europea in materia di immigrazione. Ho sempre difeso e continuo a difendere lo sforzo straordinario fatto dal vostro Paese. Il sistema di Dublino è ormai morto nei fatti: ne va preso atto sul piano europeo».
Ma questa Europa ancora alle prese con se stessa e con le proprie successive crisi interne, riuscirà mai a diventare un attore globale? Macron, nel suo discorso alla Sorbona, ha parlato di un’Europa «sovrana», capace di difendere i propri interessi e valori nel mondo. È una ipotesi realistica? «Trump, che lo vogliamo o no, ha aperto un nuovo capitolo della storia atlantica. È abbastanza triste - osserva Fischer - che ci sia voluto Trump per spingerci a fare quello che avremmo dovuto fare comunque. L’elettorato americano non è più disposto a sostenere i costi della difesa europea. Dobbiamo cavarcela almeno in parte da soli. In un discorso che trovo molto giusto, Macron ha definito le condizioni perché l’Europa riesca a competere nel mondo globale. Gli equilibri stanno cambiando molto rapidamente. La Russia è in realtà una specie di grande distrazione; è troppo debole, economicamente, per essere la vera sfida del futuro. La sfida del 21° secolo sarà la Cina, con la sua proiezione euro-asiatica».
Un nuovo assetto dell’Atlantico, con un’America più distaccata e un’Europa più responsabile di se stessa, anche nella difesa. E dall’altra parte l’ Eurasia, con una Cina che si proietta da Est verso l’Africa e il Mediterraneo. Nel grande gioco disegnato al Forum di Aspen, l’Unione degli Stati europei non è una scelta ma una necessità geopolitica. «Per l’Europa - conclude Fischer salutandomi - è il momento della scelta vera: la scelta di esistere. Oggi o mai più».


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Maroni per il Fatto Quotidiano
Banche chiuse

A decidere le sorti del braccio di ferro politico istituzionale tra gli indipendentisti catalani e il governo di Madrid alla fine sarà l’economia. Tra giovedì e ieri, almeno 15 grosse società hanno trasferito, o annunciato di voler trasferire, la propria sede legale fuori dalla Catalogna. In fuga ci sono le principali banche della regione, un colosso dell’energia come Gas Natural, la società di telecomunicazione Eurona, le assicurazioni Catalana Occidente, le C a n t ine Cava, produttrici del noto spumante Freixnet e una serie di altre aziende che vanno dalla biotecnologia (Oryzon) alla distribuzione di carburante (Ballenoil). Un esodo che sta alimentando il timore di caos economico e finanziario, contribuendo a mutare il clima politico della regione più ricca di Spagna, quella che da sola fa il 20% della ricchezza prodotta dal paese.

I toni della contesa, dopo il referendum indipendentista del primo ottobre si stanno infatti smorzando. Il presidente della Generalitat catalana, Carles Puidgemont, ha rinunciato a convocare per lunedì l’Assemblea che doveva proclamare la secessione mentre l’ex presidente della Generalitat, Artur Mas, ha dichiarato ai giornali che la Catalogna “non è ancora pro nta” per l’indipendenza; dall’altra parte, il governo di

Madrid non ha avviato le procedure per sospendere l’autonomia catalana. Ad agevolare la scelta delle imprese di spostare la sede è stato un decreto del governo centrale, di venerdì scorso, che permette il trasferimento con la semplice deliberazione del consiglio di amministrazione, senza bisogno del voto assembleare. A far rumore è stato soprattutto l’esodo delle banche. Giovedì, prima ancora del decreto governativo, si è mosso il Banco Sabadell, seconda banca catalana e quinta in Spagna, spostando la sede legale ad Alicante; venerdì è stata la volta della Caixabank, prima banca della regione e terza banca del Paese, che ha spostato la sede a Valencia, mentre la sua holding, Criteria Caixa, centro di potere catalano con un patrimonio da 11,4 miliardi di euro, si è spostata a Palma di Maiorca, nelle isole Baleari.

A quello delle due grandi banche hanno fatto seguito il trasferimento della A r qu i a banca, cooperativa bancaria nata come cassa degli architetti catalani, e anche quello di Banco Mediolanum, la sede spagnola della Banca Mediolanum: “La controllata ha operato questa scelta in ragione di logiche economiche e commerciali e al fine di rimanere nell’ambito di supervisione della Bce”, ha scritto la banca in un comunicato stampa. In gioco, oltre alla vigilanza, che garantisce la stabilità delle istituzioni bancarie europee, a beneficio anche degli investitori c’è il ruolo della Bce come prestatore delle banche europee. Va ricordato che la Spagna è uscita dalla sua pesante crisi bancaria proprio con la richiesta di 40 miliardi di aiuti chiesti all’Ue dal premier Raioj, che il quantitative easingsta beneficiando, con i tassi a zero, anche l’economia catalana, e che perdere l’accesso alla liquidità a breve della Bce mette a repentaglio l’attività bancaria. Non a caso negli ultimi giorni, mentre il sito di El Paìs segnala una massiccia richiesta di trasferimento di conti correnti, fondi e depositi bancari fuori dalla regione, l’agenzia internazionale Fitch ha annunciato di essere pronta a tagliare il rating della Catalogna e il Fondo Monetario Internazionale ha ammonito che se la crisi catalana persisterà, ci saranno seri rischi per l’economia. “Il decreto legge che dovrebbe facilitare la fuga delle banche dalla Catalogna fa parte del marketing della paura”, ha detto ieri la costituzionalista catalana Mercé Barcelo’, intervenuta a Napoli alla Conferenza dei giuristi del Mediterraneo. Se si tratta di tattica, sta funzionando.


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Luca Veronese per il Sole
I tre leader

Per tutti e tre il sogno è «la Catalogna che diventa Nazione sovrana». Il nemico comune è Mariano Rajoy, il capo del governo spagnolo, l’incarnazione dello Stato centrale e centralista, il leader del Partito conservatore e quindi degli spagnoli che non ammettono discussioni sulla Spagna «una e indivisibile».
Carles Puigdemont, Artur Mas e Oriol Junqueras stanno guidando la Catalogna nel «processo di autodeterminazione» che nei loro piani dovrebbe portare - oggi, tra un anno, forse tra dieci - all’indipendenza della regione. Hanno ruoli diversi e diverso modo di combattere la battaglia nazionalista, si ritrovano uniti nel grido che da mesi riempie le piazze di Barcellona e delle altre città catalane: Visca Catalunya lliure i sobirana!, viva la Catalogna libera e sovrana. A tenerli assieme è la causa comune contro Madrid, ma ora che si tratta di decidere se andare fino in fondo, votando nell’Assemblea catalana la dichiarazione unilaterale di indipendenza, o se invece procedere con più cautela cercando di riavviare un negoziato con Rajoy, mostrano per la prima volta da mesi, una divisione nel fronte secessionista.
Puigdemont, l’attuale governatore della Catalogna e Artur Mas, il suo predecessore, vengono dallo stessa area politica: quella di centro-destra, degli imprenditori nella regione più ricca del Paese, delle banche e della finanza, degli affari, che oggi è riunita nel PDeCat, il Partito democratico europeo catalano, e che continua a fare riferimento alla Convergenza democratica catalana di Jordi Pujol, governando in lungo e in largo e togliendo ai Popolari di Rajoy ogni possibilità di crescere a Barcellona e dintorni. Junqueras è invece la figura dominante della sinistra nella regione, vicepresidente della Generalitat, leader incontrastato della Erc, la Sinistra repubblicana di Catalogna, capace - mescolando, ideologia e pragmatismo - di tenere a bada anche la sinistra estrema nel nome dell’indipendenza. Tutti assieme i nazionalisti catalani nelle ultime elezioni del 2015 hanno ottenuto il 47%, pur non avendo la maggioranza nella regione, comandano a Barcellona e stanno prendendo decisioni per l’intera comunità catalana.
Puigdemont rappresenta l’anima idealista del nazionalismo catalano. Se la sua carriera politica è quasi casuale, fatta di coincidenze, la sua azione di governo si è dimostrata decisa e irremovibile. «Questa non è un’epoca per i codardi, per chi ha paura, per chi ha le gambe molli», disse quando venne nominato governatore della Generalitat, all’inizio del 2016. Figlio di pasticceri, giornalista, 54 anni, Puigdemont ha fatto la gavetta nelle file dei nazionalisti di Convergenza fino a diventare nel 2011 sindaco di Girona, città poco più a nord di Barcellona governata per oltre trent’anni dai socialisti. Poi il grande salto per sostituire Mas - battuto soprattutto dalla crisi economica - e ridare così compattezza alla causa secessionista. Schietto, schivo, poco carismatico, sta guidando con insospettata tenacia la Catalogna contro Madrid. Forse però si è spinto troppo in avanti, soprattutto rispetto agli obiettivi del suo partito.
Oriol Junqueras è in questo momento l’uomo forte della Catalogna. È lui che a partire dal 2011 è riuscito a portare i conservatori di Convergenza sulle posizioni indipendentiste della sua Sinistra repubblicana. Costruendo un’alleanza tanto eterogenea quanto solida, almeno nell’opposizione allo Stato nazionale. Professore di storia all’Università autonoma di Barcellona, indipendentista da sempre, 48 anni, ha studiato al Liceo italiano del capoluogo catalano ed è da lì che è iniziato ad avvicinarsi ad alcune figure chiave della Chiesa cattolica spagnola. Junqueras parla di economia e indipendenza: «La Catalogna ha bisogno di infrastrutture, di capacità di governo sul territorio, le nostre imprese ci chiedono di potenziare i porti. Ma in Spagna - spiega - tutto deve guardare a Madrid, non se ne può più». Se si votasse domani Junqueras farebbe il pieno di consensi. Ma non è questo ra ciò che vuole.
Mas è la figura meno chiara nella crisi catalana. Dopo essere stato costretto a lasciare la guida della Generalitat a Puigdemont, ha continuato ad avere un peso decisivo nel partito pur evitando di esporsi troppo. Di famiglia borghese impegnata nell’industria tessile e metallurgica, 61 anni, in politica è cresciuto sotto la protezione di Jordi Pujol. Nazionalista convinto ma indipendentista moderato, quasi per convenienza, solo negli ultimi anni ha seguendo la crescita del sentimento popolare. Ha tentato senza successo la via del referendum nel 2014. Ma oggi sembra intenzionato a togliere il sostegno a Puigdemont, per tornare a parlare con il nemico Rajoy, di maggiore autonomia. I suoi sostenitori, l’area politica della sua tradizione, le banche e le imprese che hanno scelto di trasferire la sede sociale fuori dalla Catalogna, gli hanno suggerito che forse è il caso di fermarsi. Ed è Mas in queste ore ad avere in mano il destino della Catalogna.

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Alberto Magnani per il Sole
La storia
«Il paese è cosciente di quello che sta succedendo. Forse, non cosciente delle sue conseguenze». Alessandro Gentile vive in Spagna da quasi 20 anni e insegna all’Università di Saragozza, capoluogo dell’Aragona, a poco più di 300 chilometri da Barcellona. Si divide tra la città dove lavora e Madrid, ma percepisce la stessa sensazione ovunque: «C’è un sentimento di apprensione – dice –. All’esterno la fanno passare come una questione catalana, ma è un problema che ci riguarda tutti e sta creando divisione». La frattura che si respira nelle città non è solo quella, istituzionale, tra il pugno di ferro di Rajoy e l’indipendentismo catalano: «Si stanno dividendo anche gli spagnoli – dice – tra chi è aperto alle ragioni dei catalani e chi è favorevole alla fermezza. Ma non è così facile e la tensione non è nata oggi, come sembra dall’esterno». 
In effetti la crisi catalana è sembrata un’esplosione improvvisa, dopo il referendum di domenica e un’escalation sfuggita di mano a tutti. Ma la tensione ha iniziato a rinfocolarsi nel 2010, quando lo stesso Tribunal Constitucional che ha bocciato il referendum dichiarò incostituzionali alcuni articoli portanti del nuovo statuto della Catalogna, approvato nel 2006 e improntato a una maggiore autonomia finanziaria per la regione. All’epoca scesero in piazza dai 400mila al milione di persone, a seconda delle stime, avvolti in una una bandiera che è rimasta celebre: Catalonia is not Spain, la Catalogna non è Spagna. «Stanno strumentalizzando in chiave nazionale quella che è una questione economica – dice Gentile –. E forse la “sopravvivenza” da una scissione ci sarà se gli imprenditori si renderanno conto delle conseguenze: per ricca che sia, la Catalogna ha un debito pubblico enorme e dipende dalla Spagna». Anche agli osservatori “comuni” è chiara l’interdipendenza fra Madrid e la Catalogna, regione che vale un quinto del Pil del Paese ma ha anche beneficiato degli schemi di finanziamento regionali istituiti dal governo centrale per favorire le autonomie. 
Oggi i titoli spagnoli incidono per oltre 50 dei 77 miliardi di euro di debito pubblico catalano, un’esposizione che nel sentire comune si semplifica in un principio: «Anche la Catalogna deve qualcosa a Madrid», nel senso che il gettito versato dai catalani all’erario spagnolo si bilancia ai finanziamenti incassati dalla regione per anni. Debora - «preferirei - dice - non usare il mio vero nome» - 26 anni, lavora come consulente a Barcellona e appartiene alla «maggioranza silenziosa» della Catalogna: quella che non sposa la causa indipendentista. Racconta che la vita di Barcellona «continua, anche se si percepisce qualcosa di strano nell’aria. Ad esempio, che tutto questo è una farsa». 
Una farsa? «In tanti hanno votato non perché fossero a favore dell’indipendenza, ma per contestare – dice – la reazione che ha avuto Madrid. Anche perché non sono chiari i piani, non si sa bene cosa vorrebbero fare dopo questa indipendenza. C’è solo confusione ed è incredibile che siamo arrivati fino a qui». La convinzione di fondo è che buona parte della «causa catalana» risieda nel solo fattore fiscale, sia pure con il contorno dei fattori culturali e storici rivendicati: «Si è parlato – dice - di cambiare la costituzione, di avere più sovranità. Ma quello che vogliono fare loro è gestire i propri soldi in maniera diversa». Alcuni però fanno notare che proprio il conto economico potrebbe essere l’appiglio per un accordo fra le due forze in campo. Il divorzio dalla Spagna e dalla Ue ha già fatto scattare la fuga di banche e aziende catalane. «Nessuno – dice Debora – sa cosa pensare, la situazione è che non si arriva a nulla. Siamo tranquilli e confusi, insieme». 

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Morya Longo per il SoleLa grande migrazione dei banchieri: Londra perde fino a 40mila banker La City di Londra potrebbe perdere 10mila banchieri e 20mila lavoratori del settore finanziario a causa dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. E questa stima, del think-tank Bruegel, è conservativa: uno studio di Oliver Wyman prevede addirittura che l’emorragia possa arrivare a 40mila lavoratori nel caso di hard Brexit. Il referendum sull’indipendenza della Catalogna ha spinto in soli due giorni le principali banche e almeno 7 grandi aziende a spostare la sede legale fuori da Barcellona e dintorni. Gli esiti referendari recenti, ma più in generale l’ondata anti-sistema e separatista che scuote l’Europa, stanno insomma cambiando la geografia finanziaria (e non solo) del Vecchio continente: alcune capitali riducono la centralità ottenuta nei secoli, altre la conquistano in pochi anni. E attirano business, che cade loro addosso come manna dal cielo.
Londra, che è sempre stato l’hub finanziario europeo, rischia di perdere la sua tradizionale centralità. Oltre a lavoratori, business, investimenti e indotto. La Catalogna, che è sempre stata la parte più avanzata dal punto di vista industriale della Spagna, rischia altrettanti contraccolpi economici anche se ad uscire sono solo le sedi legali e non i lavoratori di banche e imprese. Contemporaneamente altre capitali crescono attirando la “crema”: prima fra tutte Francoforte, che incasserà almeno 3mila banchieri in uscita da Londra (ma il numero potrebbe salire fino a 10mila), poi Dublino (altre meta preferita delle banche post Brexit) e a ruota altre capitali europee come Parigi e Amsterdam. Queste città stano già vivendo un boom immobiliare senza precedenti, proprio in attesa del flusso “migratorio” di banchieri e di lavoratori ad alto reddito.
Voti locali, mercati globali 
Da Londra le banche e le attività finanziarie devono uscire perché quando la Gran Bretagna sarà fuori dall’Unione perderanno il cosiddetto «passaporto finanziario» europeo. Dalla Catalogna le banche scappano perché temono, nell’improbabile eventualità che la secessione avvenga davvero, di trovarsi fuori dall’euro e senza gli aiuti della Bce. I motivi sono diversi, ma la matrice è comune: l’esito di due referendum locali (uno dei quali incostituzionale) sta cambiando le strategie di istituzioni che agiscono su mercati globali.
«Se fino a pochi anni fa Londra veniva vista come il centro finanziario internazionale globale, oggi ha perso peso nell’ottica di Brexit - commentava qualche tempo fa il numero uno di Ubs, Sergio Ermotti -. Ci saranno spostamenti di attività da Londra sul continente e, probabilmente, anche flussi di investimenti verso l’Asia o gli Stati Uniti. Nei prossimi 3-5 anni gli investitori si muoveranno verso luoghi dove si trova maggiore certezza regolamentare». Le parole di Ermotti dimostrano che la variabile politica non conta solo nelle capitali da cui il business esce, ma conta anche per determinare le città dove il business entra. Le banche e le imprese non vanno solo nel Paese che offre loro i maggiori incentivi fiscali o i migliori servizi, ma anche in quello che offre loro maggiore stabilità politica. Che significa stabilità normativa e regolamentare. Proprio questo penalizza un Paese come l’Italia.
Le ricadute economiche 
Il nuovo assetto “geografico” avrà le sue conseguenze economiche. «Il percorso verso l’indipendenza della Catalogna potrebbe essere distruttivo - scrivono gli analisti di Moody’s -, con potenziali impatti dal punto di visita finanziario ed economico». Moody’s non ritiene che questo scenario sia probabile, anzi, ma teme che in ogni caso un lungo periodo di incertezza possa avere effetti negativi sull’economia. Anche l’agenzia di rating Dbrs mette in guardia su questo fronte: «Un periodo di prolungata incertezza politica in Spagna potrebbe pesare sull’economia e sulle finanze pubbliche».
Anche Brexit potrebbe avere un impatto economico nel lungo termine. Quando banchieri o lavoratori ad elevato reddito abbandonano una città, con loro se ne va infatti un indotto enorme. A beneficio di altre città. Se può essere preso come indicatore, il mercato immobiliare già mostra i vincitori e i vinti di questo migrazione. Stima S&P che i prezzi delle case a Dublino saliranno dell’8,5% nell’intero 2017 e del 7% nel 2018 per l’arrivo di banchieri da Londra. Secondo S&P per far fronte alla carenza abitativa in Irlanda, proprio a causa di Brexit, dovranno essere costruiti 40mila nuovi alloggi ogni anno contro i 15mila del 2016. A Francoforte (si veda articolo sotto) l’impatto immobiliare è altrettanto evidente. Stime simili si fanno a Parigi. Per contro a Londra S&P prevede un calo dei prezzi dell’1% nel 2018.La City di Londra potrebbe perdere 10mila banchieri e 20mila lavoratori del settore finanziario a causa dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. E questa stima, del think-tank Bruegel, è conservativa: uno studio di Oliver Wyman prevede addirittura che l’emorragia possa arrivare a 40mila lavoratori nel caso di hard Brexit. Il referendum sull’indipendenza della Catalogna ha spinto in soli due giorni le principali banche e almeno 7 grandi aziende a spostare la sede legale fuori da Barcellona e dintorni. Gli esiti referendari recenti, ma più in generale l’ondata anti-sistema e separatista che scuote l’Europa, stanno insomma cambiando la geografia finanziaria (e non solo) del Vecchio continente: alcune capitali riducono la centralità ottenuta nei secoli, altre la conquistano in pochi anni. E attirano business, che cade loro addosso come manna dal cielo.
Londra, che è sempre stato l’hub finanziario europeo, rischia di perdere la sua tradizionale centralità. Oltre a lavoratori, business, investimenti e indotto. La Catalogna, che è sempre stata la parte più avanzata dal punto di vista industriale della Spagna, rischia altrettanti contraccolpi economici anche se ad uscire sono solo le sedi legali e non i lavoratori di banche e imprese. Contemporaneamente altre capitali crescono attirando la “crema”: prima fra tutte Francoforte, che incasserà almeno 3mila banchieri in uscita da Londra (ma il numero potrebbe salire fino a 10mila), poi Dublino (altre meta preferita delle banche post Brexit) e a ruota altre capitali europee come Parigi e Amsterdam. Queste città stano già vivendo un boom immobiliare senza precedenti, proprio in attesa del flusso “migratorio” di banchieri e di lavoratori ad alto reddito.
Voti locali, mercati globali 
Da Londra le banche e le attività finanziarie devono uscire perché quando la Gran Bretagna sarà fuori dall’Unione perderanno il cosiddetto «passaporto finanziario» europeo. Dalla Catalogna le banche scappano perché temono, nell’improbabile eventualità che la secessione avvenga davvero, di trovarsi fuori dall’euro e senza gli aiuti della Bce. I motivi sono diversi, ma la matrice è comune: l’esito di due referendum locali (uno dei quali incostituzionale) sta cambiando le strategie di istituzioni che agiscono su mercati globali.
«Se fino a pochi anni fa Londra veniva vista come il centro finanziario internazionale globale, oggi ha perso peso nell’ottica di Brexit - commentava qualche tempo fa il numero uno di Ubs, Sergio Ermotti -. Ci saranno spostamenti di attività da Londra sul continente e, probabilmente, anche flussi di investimenti verso l’Asia o gli Stati Uniti. Nei prossimi 3-5 anni gli investitori si muoveranno verso luoghi dove si trova maggiore certezza regolamentare». Le parole di Ermotti dimostrano che la variabile politica non conta solo nelle capitali da cui il business esce, ma conta anche per determinare le città dove il business entra. Le banche e le imprese non vanno solo nel Paese che offre loro i maggiori incentivi fiscali o i migliori servizi, ma anche in quello che offre loro maggiore stabilità politica. Che significa stabilità normativa e regolamentare. Proprio questo penalizza un Paese come l’Italia.
Le ricadute economiche 
Il nuovo assetto “geografico” avrà le sue conseguenze economiche. «Il percorso verso l’indipendenza della Catalogna potrebbe essere distruttivo - scrivono gli analisti di Moody’s -, con potenziali impatti dal punto di visita finanziario ed economico». Moody’s non ritiene che questo scenario sia probabile, anzi, ma teme che in ogni caso un lungo periodo di incertezza possa avere effetti negativi sull’economia. Anche l’agenzia di rating Dbrs mette in guardia su questo fronte: «Un periodo di prolungata incertezza politica in Spagna potrebbe pesare sull’economia e sulle finanze pubbliche».
Anche Brexit potrebbe avere un impatto economico nel lungo termine. Quando banchieri o lavoratori ad elevato reddito abbandonano una città, con loro se ne va infatti un indotto enorme. A beneficio di altre città. Se può essere preso come indicatore, il mercato immobiliare già mostra i vincitori e i vinti di questo migrazione. Stima S&P che i prezzi delle case a Dublino saliranno dell’8,5% nell’intero 2017 e del 7% nel 2018 per l’arrivo di banchieri da Londra. Secondo S&P per far fronte alla carenza abitativa in Irlanda, proprio a causa di Brexit, dovranno essere costruiti 40mila nuovi alloggi ogni anno contro i 15mila del 2016. A Francoforte (si veda articolo sotto) l’impatto immobiliare è altrettanto evidente. Stime simili si fanno a Parigi. Per contro a Londra S&P prevede un calo dei prezzi dell’1% nel 2018.