Tuttolibri, 7 ottobre 2017
Walt Whitman, canto me stesso per liberare il mondo
Chi si è commosso, vedendo nell’Attimo fuggente gli studenti salire in piedi sui banchi e scandire «Capitano, oh mio Capitano» all’indirizzo del professor Keating, ha percepito la bellezza del ribellarsi all’autorità ottusa e il bisogno giovanile di avere dei Maestri – ma non necessariamente sa che quel mezzo verso è di Walt Whitman (non tra i suoi migliori) e che il Capitano in questione è il presidente Lincoln, assassinato da pochi mesi. La sopravvalutazione del frammento, anche minimo, rispetto all’intero è una forma di stupidità dell’odierna comunicazione, che privilegia la retorica di corto respiro. Chi voglia inserire quell’emistichio nel suo contesto più ampio ed esaustivo ha ora a disposizione il «Meridiano» Mondadori dedicato a Whitman; anzi alle sue Foglie d’erba nell’edizione del 1892, il «libro di una vita» che ingloba tutte le raccolte precedenti; nella bella e nuova traduzione di Mario Corona, informatissimo curatore del volume.
Nel volume ci sono molti testi enfatici e pletorici, Whitman è poeta della larghezza più che della profondità; ma basterebbe il «Canto di me stesso», con cui si inaugura la prima edizione del 1855, ad attestarne l’importanza per la poesia successiva: senza, sono impensabili Allen Ginsberg e l’intera beat generation, ma anche Carlos Williams e il García Lorca di Poeta a New York, e Dino Campana in Italia. In quel poemetto originalissimo Whitman ha il coraggio ribaldo di porre se stesso al centro di tutto («I celebrate myself»): col corpo, il cazzo, le idee, l’energia trasgressiva, le contraddizioni. Omosessuale, giornalista autodidatta, si scrolla di dosso la vecchia cultura europea e come un Adamo redivivo si presenta nudo sul proscenio; il suo avverbio è «now», adesso, è poeta della geografia non della storia. Dal proprio corpo irraggia l’America intera con gli immensi spazi vergini, il Nuovo Mondo libero da re e imperatori. L’amicizia per i «comrades» (i compagni con cui divide la camera e il letto) diventa spontaneamente erotica, ma la genitalità non vi ha un ruolo decisivo; per definirla adotta una parola inedita, «adhesiveness» – accarezzarsi, stringersi insieme per formare una democrazia di uguali, di «lovers». Omosessualità e militarismo convergono, l’amore per i giovani soldati feriti è amore materno; l’attrazione per i maschi è attrazione per la vita intera, la liberazione sessuale è parte della Libertà (anche femminile, sia pure al secondo posto). Quel che si celebra davvero è la meraviglia di una società fiera di espandersi: il poeta si identifica con le masse che marciano verso un radioso orizzonte (solo due anni dopo Baudelaire, presentando non Foglie ma Fiori, si staccherà dalle masse con dandystico ribrezzo).
La novità dello stile di Whitman è nella sua barbarie: versi lunghissimi come nelle lasse bibliche, senza rima né metro, infiniti elenchi per accumulo in una sintassi semplificata, molti versi consecutivi che cominciano con la stessa parola, verbi pochi e spesso al «present continuous», ritmo proiettivo e potenzialmente infinito, lingua parlata, di strada. Stile che adesso non ci colpisce perché molto simile ne è venuto dopo, ma che allora doveva apparire rozzo e rivoluzionario.
Con quello stile, che si illude sia lo stile della Natura (da lettore di Emerson e di Thoreau), vorrebbe diventare il Vate della nuova nazione, il suo poeta civile: e allora canta i presidenti, le ferrovie, la bandiera, la morale. Mette la sordina ai desideri più indicibili e alle spinte più anarchiche, diventa una via di mezzo tra Carducci e il peggior Majakovskij; ma rimane, anche nei testi più tardi e meno ispirati, un uomo e un poeta sincero. Non nasconde l’angoscia dell’esser rifiutato, la diffidenza delle istituzioni, l’ombra dell’auto-repressione; a 50 anni già si sente un vecchio, scrive congedi e lascia crescere una lunga barba bianca.
L’altro suo testo che il professor Keating legge in classe («che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un verso») è diventato una parola d’ordine dell’attuale ottimismo coatto; l’aggettivo «foolish», che pure compare in quel testo, è stato glorificato in una famosa esortazione di Steve Jobs. Ma il «powerful play» di cui parlava Whitman era il dispiegarsi di una società audace e ricca di futuro, in un’epoca e in un luogo in cui l’individualismo capitalista poteva pensare a se stesso come a un ideale collettivo legittimato quasi religiosamente, con uno spirito tanto sicuro di sé da potersi permettere sia la luce che il buio («le mie poesie», scrive Whitman in un intelligente consuntivo, «non faranno solo del bene, faranno altrettanto male, e forse di più»). Era il mattino di un ciclo storico che ora arriva al suo estenuato e pavido tramonto; anche ora (ora che «essere se stessi» è diventato una solfa da social network) si ha bisogno di Maestri, ma di Maestri che non cerchino, tagliando i testi a loro piacimento, furbastre scorciatoie – l’entusiasmo partecipante, sennò, si riduce a una pietosa bugia.