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 2017  ottobre 06 Venerdì calendario

Nobel per la letteratura 2017: Kazuo Ishiguro, quel che resta dell’abisso

Ancora una volta l’Accademia di Svezia ha stravolto le previsioni: niente Murakami, né Ngugi, e neppure Margaret Atwood o Amos Oz, i favoriti della vigilia.
Il premio Nobel per la Letteratura 2017 è stato assegnato allo scrittore giapponese naturalizzato britannico Kazuo Ishiguro, che «in romanzi dalla grande forza emozionale ha disvelato l’abisso nascosto sotto il nostro illusorio senso di connessione  con il mondo». «Una bellissima notizia», ha commentato il regista James Ivory che nel ’93 ha portato sul grande schermo Quel che resta del giorno, sottolineando: «È davvero un grande scrittore, uno dei migliori». Congratulazioni anche da parte di Salman Rushdie, da anni tra i papabili del Nobel, «al mio vecchio amico Ish, la cui opera ho sempre amato e ammirato fin da quando ho letto Un pallido orizzonte di colline». Inoltre, ha aggiunto l’autore dei Versi satanici, «Ishiguro suona la chitarra, scrive e canta pure! Si aggiunge a Bob Dylan».
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In una conferenza del 1988 Saul Bellow, parlando pro domo sua, proclamava la condizione di métèques di tanti grandi scrittori moderni, e faceva i nomi di Conrad, Apollinaire, Babel’, Mandel’stam, Kafka, Svevo ecc., fino a Nabokov e a Naipaul. Oggi probabilmente risparmierebbe il fiato, la lista è diventata talmente lunga, che nessuno chiede più conto a un autore delle sue radici. (Molti secoli prima, naturalmente, il problema non si poneva: tutti scrivevano in latino). Così, pur abituati al ritardo con cui talvolta l’Accademia Svedese si adegua alle situazioni, non si può pensare che col premio Nobel a Kazuo Ishiguro, giapponese classe 1954 che vive in Inghilterra da quando aveva sei anni, si sia voluto segnalare un illustre esponente di coloro che convergono dalle più lontane parti del mondo per iniettare nuova linfa nella letteratura e nella stessa lingua inglese.
Non sarà allora che Ishiguro abbia conquistato il riconoscimento per il suo recente omaggio a un genere sempre più difficile da ignorare, e non solo nei libri, quello del cosiddetto fantasy pseudomedievale? Il gigante sepolto, il suo ultimo romanzo, è proprio questo, una escursione nel mondo leggendario dell’alto Medioevo britannico, con conflitti parastorici tra Britanni e Sassoni, e interventi del soprannaturale. Nulla nella attività precedente di Ishiguro sembrava prepararci a questa svolta, anche se a ben guardare una costante nella sua narrativa c’è, vale a dire l’apparente inserimento in un filone collaudato e familiare, che in realtà viene sottilmente ridiscusso. Questo filone a cui rifarsi cambia ogni volta.
La tendenza cominciò col primo vero successo, Quel che resta del giorno (1989), di cui si ricorderà anche il buon film. In precedenza Ishiguro aveva dato con L’artista la narrazione in prima persona di un vecchio, appunto, artista nipponico, il quale parlando a metà degli anni Cinquanta rievocava fatti di prima della guerra e ascoltando la propria voce veniva a scoprire il proprio sostanziale fallimento dovuto all’emarginazione per i compromessi con lo sconfitto regime nazionalista.
Anche Quel che resta del giorno avrebbe preso la strada della reminiscenza e dei conti da fare col passato. Ma questa volta Ishiguro si rifece in superficie a precedenti ben noti, ovvero alle storie di Wodehouse o di Nancy Mitford (oggi potremmo citare Downton Abbey) nelle grandi case di campagna inglesi di una volta. Un anziano maggiordomo ormai in pensione ripercorre le tappe di un’esistenza servile della quale era stato fiero finché si svolgeva, ma che adesso gli si rivela in tutto il suo vuoto, così come gli splendidi ricevimenti dati dal suo padrone avevano a loro tempo solo fatto il gioco di Ribbentrop, ambasciatore di Hitler. Il romanzo è scritto con una padronanza stilistica degna dei modelli (peraltro ribaltati: questo Jeeves è un pomposo fantoccio, un pallone gonfiato), doti confermate nei romanzi successivi che peraltro spostarono il realismo dei particolari sempre più verso la dimensione dell’incubo.
Un incubo kafkiano non privo di risvolti comici è Gli inconsolabili (1995), dove un pianista che deve esibirsi in una cittadina forse mitteleuropea si trova sballottato tra tensioni locali che non capisce e dalle quali tenta invano di difendersi, con un crescendo di angoscia che culmina in una sorta di risveglio. Un altro incubo, più articolato, è nel premiatissimo (e anch’esso diventato film) Non lasciarmi (2005): quasi una storia di fantascienza, al solito raccontata da una persona che sembra non rendersi veramente conto di cosa c’è dietro. Seguendo tre ragazzi dalla fanciullezza alla prima maturità scopriamo poco alla volta che essi sono in realtà le ignare cavie di un esperimento mostruoso, con un’atmosfera sempre più sinistra che può far pensare al non meno inquietante Storia di una cameriera di Margaret Atwood. Tra questo e l’ultimo romanzo ci furono i racconti di Notturni (2009), tutti con musica o musicisti, e tutt’altro che rassicuranti.
Quanto al Gigante sepolto (2015), i suoi antecedenti ovvi sono Tolkien (per non parlare del Trono di spade), e, se vogliamo, anche lo Shakespeare preromano (Re Lear); ma come al solito, in una chiave sottilmente diversa. Al posto della dichiarata evasione fantastica di Tolkien c’è una vernice, ironica, di aderenza storica, con interventi della autentica letteratura medievale, compreso il personaggio di Gawain, eroe di un famoso poemetto, qui però presentato come uno stanco veterano; e ci sono, rare ma intense, scene di feroci battaglie e massacri. Questo mondo evocato con la consueta maestria e indisponibilità a ripetersi fa però stavolta da sfondo a una vicenda accattivante, addirittura a una storia di amore tra vecchi coniugi impegnati in un lungo viaggio alla ricerca del figlio, con una sorta di accettazione anche del male come parte dell’esistenza, che in ogni caso va vissuta.