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 2017  ottobre 05 Giovedì calendario

Gigi Meroni, la “Farfalla” eterna

«Come faccio a dimenticare quel 15 ottobre del 1967? È stato il giorno del mio debutto in Serie A con la maglia del Torino... Poi alla sera squilla il telefono e mi dicono: “Sai Aldo, Gigi è morto!”...». Oggi come cinquant’anni fa Aldo Agroppi, uno degli ex ragazzi del Filadelfia, ricorda con un nodo in gola la tragica morte della “Farfalla granata” Gigi Meroni, volata via per sempre ad appena 24 anni. «Sono del ’44, avevo un anno meno di Meroni. E quella domenica ero tornato a casa raggiante, non stavo nella pelle. La prima volta in Serie A e avevamo pure vinto (4-2 con la Sampdoria). Chi poteva immaginare che uno dei giorni più belli della mia vita sarebbe rimasto legato per sempre al ricordo di un lutto indelebile...». La perdita della stella più luminosa di quel Torino di Edmondo Fabbri, il mister metodico, il “Topolino” che dietro ai suoi occhialini da professore di football era attento ad ogni movimento di un genio predestinato del calcio.
«A Gigi era tutto concesso, ordine del presidente Pianelli. Libertà assoluta a un anarchico vero: capelli lunghi, il baffo, la barba, perché era un genio, per niente ribelle, ma rispettoso dell’allenatore, dei suoi compagni, dei tifosi... Era uno spettacolo vederlo arrivare all’allenamento alla guida della Balilla, vestito di tutto punto con quegli abiti eccentrici, da dandy, che disegnava personalmente... – continua Agroppi –. Lo prendevamo in giro e lui con il sorriso del ragazzo buono e generoso stava sempre al gioco. Poi appena scendeva in campo cominciava un altro spettacolo. Quello che faceva Meroni in allenamento e la domenica in partita io l’ho visto fare solo a Omar Sivori, che era il mio idolo prima che diventassi un ragazzo del “Fila”». E, come Sivori, il Gigi granata giocava tassativamente con i calzettoni calati giù, a scoprire le caviglie, quasi a sfidare il terzino pronto a morderle con ferocia. «Ma Gigi non aveva mai il tono di sfida del “perfido” Sivori, che era un gran signore fuori ma in campo si trasformava, diventava una belva... Meroni no, era un’anima gentile, un artista che amava il calcio e la vita con la stessa intensità». E come un farfalla la sua vita si consumò in fretta.
Quella domenica sera di cinquant’anni fa era uscito dal ritiro per andare al bar a festeggiare con il suo amico e compagno di squadra Fabrizio Poletti. Il traffico di Torino a quell’ora era impazzito e lì all’altezza del civico 46 di corso Re Umberto avvenne l’impatto mortale. Una Fiat 124 coupé urtò di striscio Poletti mentre Meroni, investito alla gamba sinistra, fu sbalzato nella corsia opposta e una Lancia Appia lo trascinò con sé per almeno cinquanta metri. Alla guida della Fiat c’era Attilio Romero, diciannovenne napoletano tifoso sfegatato del Toro ma soprattutto pazzo di Gigi Meroni. Era quello stesso “Tilli” Romero che nel giugno 2000, quasi come “espiazione” a quella tragica fatalità, divenne il presidente del Torino. Una Torino che all’indomani della tragedia si svegliò con le lacrime agli occhi, svuotata per la perdita di un figlio davvero unico. La piazza invece si riempì di una folla composta e silenziosa. Furono più di ventimila i “senzaMeroni” accorsi al suo funerale che venne celebrato dal cappellano del Toro, don Francesco Ferraudo.
La domenica dopo era giornata di derby contro la Vecchia Signora che aveva offerto una montagna di milioni per strappare Meroni al Torino. «Però il popolo granata alla notizia aveva organizzato una sommossa», ricorda Agroppi. Quel popolo tornò al Comunale dopo una settimana di disperazione. Ma la Farfalla probabilmente quella domenica volò ancora, assieme alle gambe dei suoi compagni che strapazzarono la Juventus 4-0. Tripletta dell’ex bianconero, il bomber franco-argentino Nestor Combin, e la quarta rete la firmò Alberto Carelli, al quale Fabbri aveva consegnato la pesantissima maglia n. “7” di Gigi Meroni. Un compito ancor più gravoso per quell’ala sinistra che correva i cento metri in undici secondi netti ma che certo non aveva i guizzi istrionici della Farfalla granata. «Sostituire Gigi avrebbe voluto dire diventare il George Best italiano – continua Agroppi –. Impossibile. L’unico che si avvicinò un po’ a lui arrivò l’anno dopo dalla Cremonese, Emiliano Mondonico. Il “Mondo” aveva un fisico mingherlino anche lui, portava i capelli lunghi, il baffo, era estroso, possedeva un dribbling e dei numeri impressionanti. Alla prima partita segnò contro il Pisa, vincemmo, e venne subito eletto “erede di Gigi”... Poi Emiliano ha fatto una bella carriera ma non è arrivato al vertice perché mi confidò: “Non ho mai preso davvero sul serio il calcio. Per me era un divertimento e troppo tardi ho capito che questo sport è anche sacrificio”».
Il Mondo conferma, lui scappava dal ritiro per andare a sentire un concerto dei Rolling Stones. Voleva essere il Mick Jagger del calcio, poi è diventato uno dei Nomadi, anche della panchina. «Meroni era nato per diventare il quinto Beatles italiano», sottolinea Agroppi. Un rivoluzionario in campo e fuori che aveva anticipato il Sessantotto saltando le barricate del conformismo imperante nell’Italietta del dopoguerra e professando un pacifismo pittorico («dipingeva quadri nella sua soffitta») che non ha avuto eredi. Quella maglia n. “7” poi è toccata in sorte a un altro mancino come Carelli, Claudio Sala. «Il “Poeta del gol”. Claudio Sala ha fatto le fortune dei “gemelli”, Ciccio Graziani e Paolo Pulici, che con i suoi cross pennellati andavano in gol e fecero vincere l’ultimo scudetto del Torino di Gigi Radice, stagione 1975-1976. Grande giocatore Claudio, ma Meroni era un’altra cosa». L’ultimo grande Gigi granata è stato Lentini. Mondonico lo ha allenato e dice: «Lentini era un fenomeno da Pallone d’oro, ma era un po’ come me, ha capito troppo tardi... Meroni al Pallone d’oro sarebbe potuto arrivarci ma all’epoca doveva faticare il doppio per spazzare via i tanti pregiudizi nei suoi confronti e far capire che rappresentava tutti noi giovani, il futuro di questo Paese». Un grande futuro alle spalle ormai, ma qualcosa rimane. «Gli fu fatale quell’ultimo dribbling – dice Agroppi congedandosi –. Ma lassù, l’Amministratore Unico aveva deciso: il posto di Meroni non era più nel Toro e l’ha chiamato a giocare nella squadra degli angeli e delle farfalle come lui».