GQ, 1 ottobre 2017
Dentro e fuori Mountain View
Per andare a Mountain View da San Francisco bisogna risalire la baia. Ed è meglio prendere il treno. Uno di quei convogli americani da Una poltrona per due, con le fiancate di lamiera inox, che fa fermate mitologiche: Menlo Park, Palo Alto, e poi appunto Mountain View. Qui vent’anni fa è nato tutto, qui Sergey Brin e Larry Page il 15 settembre del 1997 ebbero l’idea di registrare il domino di Google e l’anno successivo fondarono l’azienda che risponde alle nostre domande.
Scendiamo alla stazione che è uguale in tutti i paesotti della Silicon Valley. C’è la strada principale, qualche rimasuglio della dominazione spagnola che colonizzò questo pezzo di Alta California, tanti ristoranti uno in fila all’altro. Ma, a differenza degli altri posti, qui vige la monocultura.
Google, infatti, crescendo fino a ventimila dipendenti (solo qui), ha inglobato la cittadina col suo Googleplex, ormai talmente celebre che ne è stata fatta anche la parodia nella serie tv Silicon Valley. Biciclette, rettangolo per il beach volley, aria da campus di un college.
Scott Huffman, vicepresidente responsabile del progetto Google Assistant, studia le risposte del futuro. È qui da dodici anni.«Le persone non si rendono conto di come sia cambiata la ricerca di Google. Oggi lavoriamo all’assistente del futuro, abbiamo sceneggiatori della Pixar che studiano le battute per la sua intelligenza artificiale. Intanto i miei figli, che una volta mi facevano le classiche domande estenuanti tipiche dei bambini, adesso hanno smesso e chiedono direttamente a Google».
Altro giro dell’immenso campus. Andiamo nel Garage, uno stanzone al piano terra di uno degli infiniti non-luoghi di questa megalopoli. Frederik Pferdt, Chief Innovation Evangelist, titolo immaginifico di cui sono capaci solo qui a Silicon Valley, ci accoglie in questa specie di kindergarten per i dipendenti Google. Pferdt insegna anche a Stanford, nel fondamentale DCenter, il centro di design dell’università nata come facoltà di agraria: perché cent’anni fa da queste parti si coltivavano soprattutto albicocche. Ci guida in questo spazio dedicato alla sperimentazione, tra maschere di plastica, rosse e gialle, stampate in 3D.
«Hanno costruito un sacco di cose per il Burning Man (il festival fricchettone nel deserto del Nevada ndr)» racconta. Sì perché stiamo osservando il progetto GtoG, quello in cui i dipendenti volonterosi spiegano ad altri delle materie bizzarre.
Un signore sta aggiustando un microchip al microscopio, mentre arriva una signorina daH’aria affannata. «È la volontaria del corso di cucito», continua Pferdt. Pare che il sewing sia l’insegnamento più seguito in questo garage, dove c’è anche una stanzetta-sartoria, con macchinari e assi da stiro.
Oggi nella città di Google c’è poca gente in giro perché è Parents’ Day, la giornata in cui i dipendenti sono invitati a portare i genitori in ufficio (anzi al campus).
I pochi impiegati senza genitori (sono tutti all’evento aziendale) passeggiano con il loro badge appeso sui pantaloni, a sinistra. Quel badge è preziosissimo, serve a entrare negli edifici, nelle palestre, soprattutto nei bus. E i bus sono un capitolo a parte nella saga di Mountain View. Verso le quattro di pomeriggio, nelle decine di uscite di questo campus-megaditta, si sentono infatti dei beep identici a quelli delle letture dei codici a barre nei nostri supermercati. Sono gli impiegati che “badgiano” alla salita dei torpedoni che li riportano in città, su per la 101, l’autostrada che va su a San Francisco e che nelle ore di punta genera giganteschi e costanti ingorghi. Per coprire i 58 chilometri che separano Mountain View dalla città si possono impiegare anche due ore; dunque è tutta una corsa a prendere non l’autobus al volo fantozzianamente, ma quello prima possibile, ecco dunque la folla al bus delle 16:35, ultimo slot per non restare imprigionati nel mare di macchine (dalle cinque di pomeriggio scatta l’intasamento, mentre la mattina i più scaltri non partono dalla città dopo le sei).
I Google bus hanno creato un’antonomasia e sono diventati sinonimo di tutti gli autobus privati delle grandi corporation giovani che dalla città portano alla Valle. Creando con la città di San Francisco una relazione complicatissima: in città li detestano, e ogni tanto qualche mobilitazione li accusa di inquinare e intasare come i torpedoni a Roma. Così, a differenza delle bici, delle t-shirt e di tutto ciò che porta orgogliosamente il marchio Google, questi bus molto Anni 80, con scritte “aria condizionata”, “comfort”, sono del tutto anonimi. Ogni giorno solcano la Silicon Valley inghiottendo e rimettendo il prezioso carico di cervelloni pagati a peso d’oro, che pure dissipano molto capitale intellettuale nei lunghissimi tempi di commuting (ma con banda larghissima, a bordo, registrandosi nelle reti aziendali). In molti poi scelgono il quartiere a seconda del passaggio del loro Google Bus (che può determinare impennate o discese dei prezzi immobiliari). Se abiti nella Mission, quartiere fighetto ex sgarrupato a Sud, puoi risparmiare anche un’ora di sonno, alla faccia dei tuoi colleghi che il bus lo prendono più su.
Ma lasciando i beep, mentre questi autobussoni partono sibilando, noi camminiamo nell’enorme campus che si è espanso drasticamente in questi vent’anni; è impossibile uscire dal feudo, ecco stradine perfettamente curate con la ciclabile, la pedonale (con sensi di marcia precisi e precedenze più difficili che in autostrada); con aiuole fiorite a destra e sinistra; si incontrano palestre Google, il deposito bici Google, il campo da tennis Google, dove due dipendenti parlano in cinese tra loro.
La sensazione da company town è fortissima.
Un amico si vantava di aver fatto: «il miglior massaggio della vita». Dove l’hai trovato? «Google», la risposta. Si, ma dove lo hai fatto? «a Google». È così perché, per accaparrarsi i migliori cervelloni, Google, come molte altre aziende della Silicon Valley, offre i migliori benefit. Crea un luogo dove ogni desiderio riceve la migliore risposta. Anche se poi si ha sempre l’impressione di un grande fratello che sa a che ora entri, che sport ti piace, a che ora torni a casa. Manca solo la tomba aziendale.
Continuando a camminare, a un certo punto si riesce perfino a uscire dalla città-azienda (ma bisogna poi stare molto attenti perché essendo la maggior parte delle auto elettriche, regna il silenzio totale e si rischia di essere investiti).
Diretti verso downtown, ecco angoli di paese non conquistati da Google; c’è un isolato con una palestra Overtime Fitness abbandonata e, del resto, con il 90% che va nelle bellissime palestre aziendali, chi andrebbe a pagamento fuori dalle mura dell’impero? C’è uno Starbucks e, attaccati, un ristorante indiano e uno italiano. Seduto su un muretto c’è un vecchietto con cappellino, t-shirt e braccialetto tutto targato Google, e un romanzo di Steinbeck in mano. Forse un anziano tech evangelist, si pensa.
«Macché, son venuto a trovare mio figlio per il Parenti’ Day. Son venuto giù da Rochester, stato di New York», dice il signor Henrik. «Mio figlio ha iniziato a lavorare a Mountain View da due anni. Lavora alla sicurezza di Google Play. Questa è la seconda volta che vengo, la prima quando abbiamo cercato casa». Sarà orgoglioso? «Certo, beh sì, per me la Silicon Valley è ok, anche se poi l’altra mia figlia è rimasta a Rochester, lavora nell’abbigliamento, guadagna un decimo ma si è già comprata una casa», dice. E Steinbeck? «Ah, questo l’ho preso in biblioteca ma sinceramente non ce la sto facendo».
Andando verso il paese, ecco studi dentistici prefabbricati, e forse non c’entra niente, ma anche sui tombini di mettallo c’è impresso il simbolo Google.
Su per Space Park Way, la stradona alberata che porta verso lo storico Nasa Ames Exploration Center. L’agenzia spaziale americana ha qui una base, con la pista militare Moffett: mitologico aeroporto che un tempo faceva decollare gli Zeppelin. Resta l’enorme capannone da cui entravano e uscivano i dirigibili.
Ma anche qui è impossibile sfuggire alla monocultura: dal 2014 la pista militare ospita gli aerei privati dei fondatori di Google, un Boeing 767 e un Gulfstream V. Però, tra la base militare e il villaggio-azienda, sopravvive una specie di necropoli etrusca della Silicon Valley 1.0: è il villaggio di Santiago Villa, un agglomerato di case mobili che pare un viaggio nel tempo rispetto alla modernità del Google-feudo.
Si entra, con un portale di cemento un po’ sgarrupato, da Bassa California, da telefilm Anni 80, e il panorama cambia subito. E come uscire dalla bolla del Truman Show, niente biciclettine, ma a destra e sinistra si espandono le classiche villette americane, per lo più di legno, di colori azzurrini, crema, celesti, talune con la bandiera americana; alcune con portico, altre addirittura a due piani. Sono classiche mobile homes, che si smurano, si spostano a traino e si muovono per la nazione, al seguito dei destini mobili americani.
Un tempo per piccole e piccolissime medie borghesie, sono diventate invece l’ultima spiaggia per i dipendenti Google in cerca di un tetto. Il problema della Silicon Valley è infatti lo spazio: e così anche ingegneri pagati tantissimo non riescono a trovare case accettabili a distanze soprattutto accettabili. Per non passare le ore sui Google Bus, o nelle loro Tesla, alcuni decidono di abitare in queste case mobili. Così ci introduciamo, violando i cartelli di “proprietà privata” e “no trespassing” in questo vicinati surreale. Sotto una tettoia giacciono segn di gentrificazione avvenuta, copie del Neu Yorker incellofanate sulle soglie, pacchi d spedizioni di Amazon Prime. Alcuni giardi nieri messicani tosano siepi, sempre di casi mobili. Un signore gioca sotto un portico.
«Certo, anche i miei dirimpettai lavorano a Google», dice questo Robert, che avrà un sessantacinque anni e sta giocando con dei pupazzetti col nipotino Charlie: «I prezzi sono saliti tantissimo», dice «quando sono venuto a stare qui, quattordici anni fa, l’affitto del terreno su cui posizionare la mobile house, costava 600 dollari adesso viene 2.000. Ma all’affitto devi sommare anche il costo della casa, o il relativo mutuo, acceso per comprarla. Per esempio, per una casa mobile media devi sommare 2.000 a 1.800 di mutuo, totale 3.800 dollari al mese».
È il prezzo da pagare per stare al centro di Silicon Valley, pare tanto ma è quello che si paga per un bilocale a San Francisco (più le ore di commuting). Ecco spiegato il successo del villaggio-rétro. «La proprietà credo se ne stia approfittando», dice un po’ desolato il nonno analogico Robert. «Cercano di buttare fuori i vecchi residenti e li riaffittano a prezzi molto più alti».
Così è interessante notare il mischione tra vecchie e nuove utenze. Vecchie Toyota scassate accanto a Prius ibride nuove di zecca. Due signore sudamericane con grosse catene d’oro e un pitbull al guinzaglio escono dalla loro casa come in un film di Tarantino, mentre un ragazzo con la tuta strappata e gli auricolari Apple senza filo e il badge Google di riconoscimento cammina con passo da rapper.
Dei 348 lotti di Santiago Villa uno solo è in vendita: c’è il cartello, durerà pochissimo. Il problema della casa è enorme: la stessa Google ha vari progetti urbanistici per creare villaggi prefabbricati in zona; ma anche la Nasa vuole mettere a profitto l’enorme metratura dei suoi hangar, ha infatti un piano per costruire 1.930 abitazioni nei terreni della base sulla Baia, nei 18 ettari dove oggi sorge l’aeroporto.
I posti di lavoro nella Silicon Valley del resto aumentano di 65.000 unità all’anno, e le case sono sempre quelle. I comuni fanno un sacco di difficoltà. Il reddito medio è di 180 mila dollari. Il nonno Robert non è un nonno apocalittico, però. Che lavoro faceva prima della pensione? «Ingegnere a Genentech», cioè colosso locale delle biotecnologie. Prima generazione di Silicon Valley, dunque. Senza snobismi verso i suoi successori, solo un po’ di nostalgia. «Pensare che vent’anni fa Google impiegava sì e no quaranta persone», sospira. Il bambino Charlie intanto gli fa molte domande: per l’intelligenza non artificiale forse ci sarà sempre posto.
Se uno non capisce fino in fondo che cosa faccia Google dovrebbe parlare con Fabio Varcarono. È il numero uno di Google Italia con la qualifica di Managing Director e la prima cosa che dice è la più chiara: «Noi siamo un fattore abilitante trasversale». Ovvero una piattaforma di servizi che aiuta altre aziende ad alimentare il loro business. Google aiuta l’azienda X a raggiungere il maggior numero possibile di persone. Ed è tutto, o quasi. Capirlo è la sintesi, è ciò che sta alla base di quella che lui chiama cultura digitale. Perché oggi il 25% della crescita dei Paesi del G20 viene dall’economia digitale, che non è – come molti pensano – un settore, o l’insieme di aziende tecnologiche, ma è la digitalizzazione del business tradizionale. «Tu sei bravo a fare qualcosa e hai avuto il problema della prima fase della globalizzazione in cui si ragionava solo su fenomeno di scala, oggi invece hai una rete che ha avvicinato tutto. Come dice Kevin Kelly “la cosa più di nicchia è a un solo clic di distanza dalla cosa più famosa”. È l’uovo di Colombo per l’economia, e soprattutto per quella italiana». In questi cinque anni in Google Italia, Vaccarono ha visto cambiare un Paese che non ha ancora finito il suo processo evolutivo. «L’Italia ha grandi possibilità e per questo noi ci mettiamo tutta la passione, tutta l’energia, per farlo capire alle aziende italiane. E vero che dobbiamo farlo capire a una parte dei consumatori, perché abbiamo ancora il 25% di persone che non è mai entrato in contatto con Internet. Ma paradossalmente quelli che ci vanno sono molto più avanti delle aziende che dovrebbero servirli. Anche se tu sei un produttore che fa un bene che tendenzialmente interessa una persona su centomila, se ti fai trovare in rete, hai potenzialmente una fan base di alcune migliaia di consumatori da cui partire. Per questo noi abbiamo investito in Google per il made in Italy, nel food, nel manifatturiero. L’idea è di collocarsi come motore di crescita, per altri. La logica di essere la scintilla che genera questa crescita è alla base di molti dei progetti che abbiamo sviluppato e che vogliamo sviluppare».