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 2017  settembre 25 Lunedì calendario

Instagram stories. Intervista a Mike Krieger

Qual è il ruolo di un simile concorrente: una fonte d’ispirazione, un prodotto con cui confrontarsi o, semplicemente, un altro player? C’è spazio per tutti?
«La ragione per cui abbiamo aggiunto le Storie a Instagram è semplice: tante persone – tra le quali molte provenienti dal mondo della moda – ci hanno spiegato che caricando più di una foto di un determinato evento rischiavano di infastidire i follower e intasare la timeline. Per loro la soluzione consisteva nel postare una sola immagine e commentarla, invitando il pubblico a seguirli su Snapchat. Abbiamo quindi portato quell’esperienza dentro Instagram e l’abbiamo fatta nostra».
Ispirazione o semplice copia? Qual è il confine che le separa?
«Se ripercorri la storia della tecnologia in Silicon Valley, capisci che guardare al di là del proprio steccato in cerca di un’ispirazione per migliorarsi – o differenziarsi – è una prassi costante. Prendiamo le nostre Storie: ok, il formato l’ha inventato Snapchat ma se l’avessimo semplicemente preso, copiato e piazzato all’interno di Instagram, non avrebbe funzionato. È stato importante chiedersi come adattarlo al resto dell’app inserendo gli hashtag e le citazioni, che per noi sono fondamentali, e valutando di volta in volta se gli sticker e gli effetti che aggiungiamo rispondono ai nostri criteri d’uso o sono semplici scopiazzature».
Un altro limite che condiziona le persone è l’orgoglio. Ai tempi del lancio, Instagram continuava ad andare in crash e vi siete rivolti ad Adam D’Angelo, ex chief technology officer di Facebook. Quant’è difficile chiedere aiuto anziché chiudersi sul proprio prodotto? «L’engineering è un mezzo per raggiungere uno scopo. Io ho studiato una combinazione tra programmazione e design, Kevin un’altra fra programmazione e scienze del management: non siamo sviluppatori tradizionali, e ciò aiuta a essere più umili. Se avessimo studiato informatica pura, forse avremmo avuto un problema a chiedere aiuto... Sono onesto con gli sviluppatori che assumo: dico che lì ho presi a bordo perché sono più bravi di me. Il mio ruolo? Organizzare e far lavorare tutti insieme per raggiungere lo scopo. In Instagram un altro motto è: “Sii umile, ma sicuro di te”».
Avere idee ben precise può anche essere un limite? Quant’è difficile programmare qualcosa di diverso rispetto a ciò che avevi immaginato all’inizio?
«Con quel tipo di limite è difficile mettersi in relazione, soprattutto mentre la squadra sta crescendo. Quando si è in due puoi far cambiare radicalmente direzione alla tua società in una giornata. Come abbiamo fatto con Instagram, del resto. In questi giorni sarebbe più difficile, perché abbiamo centinaia di persone a bordo. E poi ho realizzato che noi assumiamo gente appassionata di Instagram, per cui cambiare diventa spaventoso. Un esempio? Un anno e mezzo fa ci siamo aperti alle foto rettangolari – una scelta che, col senno di poi, sembra la più ovvia ma che, ai tempi, ci aveva molto preoccupati – e tutti erano sicuri che avrebbe rovinato il prodotto. Credo che, a questo punto, il nostro ruolo in quanto fondatori consista nell’abbattere questo tipo di barriere e rassicurare il gruppo».
Qual è l’equilibrio tra sistemare il presente e costruire il futuro?
«Ci sono stati momenti in cui questo bilanciamento non è stato il nostro forte: troppo proiettati sul futuro, aggiungevamo novità su novità. Ora che possiamo dividere la forza lavoro su diversi prodotti, siamo in grado di distribuire meglio anche le priorità – correggere gli errori o migliorare le prestazioni, per esempio – lasciando tempo anche per le cose nuove. Una cosa abbiamo imparato negli ultimi sei mesi: in termini di apprezzamento generale dell’app, aggiustamenti e miglioramenti nelle prestazioni sono importanti quanto le nuove caratteristiche».
Secondo Clifford Nass, professore tuo e di Systrom a Stanford, Instagram non è un successo tecnologico ma un trionfo di design e psicologia. In un prodotto, dove finisce la tecnologia e inizia invece l’aspetto umano, l’esperienza?
«Mi sono laureato in Sistemi simbolici, un mix di linguistica, psicologia e filosofia. Probabilmente, anche in altre università esistono programmi simili, ma l’unico dottorato che lì combina tutti in uno è questo che, per come lo vedo io, insegna due cose: come funzionano le macchine – da quella di Turing alla programmazione di base e come pensano gli esseri umani dal punto di vista psicologico e comportamentale. Ma, soprattutto, impari a fare la sintesi tra queste due discipline: visto che capisco cos’è possibile dal punto di vista ingegneristico e di cosa c’è bisogno da quello umano, dovrei essere in grado di tirar fuori un prodotto innovativo e interessante. Una laurea ideale, per un imprenditore. Sono d’accordo con Nass: di per sé la tecnologia, che neppure dovrebbe essere visibile, è interessante solo se può essere utilizzata per risolvere problemi reali».