Libero, 4 ottobre 2017
Baricco affonda Rai tre. Lui difende gli immigrati, gli italiani cambiano canale
Quando ho letto Furore in programma, ho subito pensato fosse la trasmissione di cazzeggio musicale condotta da Alessandro Greco. Invece era la lettura del capolavoro di John Steinbeck, Furore, tenuta da Alessandro Baricco, alla vigilia della giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. E subito ho pensato: che ci azzecca?
Due giorni fa su Rai Tre lo scrittore torinese ha recitato e commentato in prima serata (con il 2.16 di ascolti e 554 mila spettatori) ampi passi del romanzo, giocando sull’analogia tra la migrazione narrata da Steinbeck lo spostamento di massa dei contadini del Midwest alla metà degli anni ’30 in direzione California e le migrazioni di oggi da Medio Oriente e Nord Africa verso l’Europa. In particolare l’accento era posto sulle reazioni di intolleranza degli autoctoni californiani nei confronti degli emigrati dall’Oklahoma, bollati come «sporchi», «ladri», «maniaci sessuali», «stranieri», portatori di «malattie». E, nel dirlo, Baricco si soffermava, si compiaceva, quasi ad accusare implicitamente Libero che usa quei toni contro i clandestini (ovviamente contro quelli che rubano, commettono violenze sessuali ecc...). Il paragone era facile, evidente, quasi banale. Ma poi ti fermavi un attimo e capivi che, preso dal «furore» politicamente corretto, Baricco aveva preso un granchio pazzesco. E ti chiedevi: che senso ha strumentalizzare un capolavoro letterario per commentare l’attualità? E soprattutto: come si può paragonare un fenomeno americano degli anni ’30 del Novecento a un fenomeno europeo del 2017? Venendo poi al merito del romanzo, vi si descrive una migrazione interna allo stesso Paese, gli Stati Uniti, e non una migrazione da continente a continente: Steinbeck non raccontava di scontri etnici o problemi di integrazione culturale e religiosa, semmai di conflitti sociali tra proprietari terrieri e contadini, tra ricchi e poveri. Era una «guerra» tutta tra americani, che forse anche se con qualche forzatura sarebbe stato più corretto paragonare alle migrazioni dei meridionali italiani a Nord nel Dopoguerra.
E poi, quello spostamento che portò migliaia di persone dall’America profonda verso la costa pacifica era un fenomeno spontaneo, autogestito dalle famiglie come la famiglia Joad su cui verte la narrazione a bordo di autocarri, non certo una migrazione agevolata da trafficanti di morte o sfruttata da cooperative e ong. Si muovevano da soli, gli Okies (così erano chiamati dispregiativamente i migranti dall’Oklahoma), non venivano salvati a metà del tragitto (anche perché la «traversata» era meno mortale della tratta dei migranti di oggi) né affidati a chi voleva speculare sull’accoglienza. Dietro il loro viaggio c’era solo disperazione e fame, e magari il sogno tutto americano del West e di un futuro migliore, non puzza di business, come oggi.
Da ultimo, l’ira, o meglio il «furore» di cui parlava Steinbeck, si riferiva alla rabbia sociale di chi emigrava ed era esasperato, di chi aveva trasformato la fame in collera e desiderio di riscatto; e quindi non è confrontabile con la rabbia sociale di oggi, che al contrario monta tra chi è costretto ad accogliere, tra chi teme di essere espropriato di case e soldi dai nuovi arrivati, tra chi già povero si sente fregato dai poveri di altri Paesi. Fosse vivo oggi, insomma, Steinbeck racconterebbe il furore degli autoctoni, non dei migranti, e magari narrerebbe l’epopea di una famiglia esausta di essere discriminata nel suo stesso Paese...
Con buona pace di Baricco che, pur avendo scritto Novecento, dovrebbe rileggersi meglio la storia del secolo scorso.