Libero, 4 ottobre 2017
Pietro Maso in tv non è scandalo
Non è che mi ispiri epidermica simpatia Pietro Maso, l’assassino dei suoi genitori tornato in libertà dopo 22 anni di carcere, e non mi fa impazzire nemmeno Maurizio Costanzo, giornalista di provata esperienza che ha fatto un’intervista a Maso che andrà in onda giovedì su Canale 5. Ma alle migliaia di ignoranti che in queste ore stanno inondando il web di proteste (in sostanza perché a Maso dovrebbe essere impedito di parlare) c’è solo da spiegare che forse loro non lo sanno, anzi, non lo sanno sicuramente perché sono ignoranti: ma Pietro Maso ha gli stessi diritti giuridici che hanno loro, proprio gli stessi, identici. Anzi, a dirla tutta ma questa è un’opinione personale l’intervistato ha pure qualche diritto/dovere mediatico e sociologico in più, perché il suo resta uno dei più clamorosi casi di omicidio a sfondo familiare della cronaca italiana e forse più ne capiamo e meglio è. «Cosa c’è da capire e da approfondire nell’intervistare un assassino? A chi interessa?», questo, per esempio, hanno scritto sulla pagina Facebook di Maurizio Costanzo. Oppure: «Costanzo e Mediaset, vergognatevi. Dare visibilità, compensi e la possibilità di dire la sua ad un assassino x garantirsi il picco dell’audience. Misera pagina di giornalismo. Nessuno dovrebbe guardarla!».
Tutti, però, dovrebbero leggere i libri. Quelli di scuola, per cominciare. Oppure il libro che Pietro Maso ha scritto assieme a Raffaella Regoli (“Il male sono io”, Mondadori) perché sapete, Maso non solo è già stato intervistato, ma appunto, ha firmato un libro: i giudici da social però sanno poco di libri. Guardano la televisione. Non sanno che Roberta Cossia, il magistrato di sorveglianza che firmò il fine-pena di Maso, ha spiegato che lui è a tutti i diritti «un cittadino come gli altri e così dovrà essere considerato». Non sanno che si è sposato nel 2008 dopo aver ottenuto la semi libertà e un lavoro. Non sanno che il tribunale di sorveglianza ha valutato la riabilitazione di Maso «complessivamente positiva. Ha accettato di fare un percorso di revisione e di meditazione... e spero ha detto il giudice che la gente impari ad accettare che, quando un castigo viene interamente espiato, bisogna passare oltre, abbandonando l’istinto di aggiungere un surplus di punizione non previsto». Non sanno nulla, i coraggiosi giudici da social. Per loro è tutto parolame che non interessa. Non i libri. Neanche i giornali, ormai. Loro definiscono gli autori dell’intervista «sciacalli infami», invitano a boicottare il programma, a vietarlo ai minori: come se non lo trasmettessero a tarda ora, come se fosse programmato su “Boing” alle 5 del pomeriggio.
Non è che non sappiamo che cos’abbia fatto Pietro Maso, 26 anni fa, e come l’abbia fatto. La villetta di Montecchia di Crosara, nel veronese, il delitto da Arancia Meccanica. Sappiamo pure che è ancora sotto inchiesta con l’accusa di aver cercato di estorcere soldi alle sorelle. Ma la morale, applicata al diritto, è roba da Paesi islamici. Maso è stato condannato a trent’anni di carcere con un parziale riconoscimento di seminfermità mentale. Dopo 22, è stato rimesso in libertà ed è stato ricoverato in una clinica psichiatrica. I suoi complici hanno preso rispettivamente ventisei e tredici anni, e sono fuori anche loro. Se l’intervista non interessa, c’è la solita idea geniale: non guardarla, cambiare canale, rileggersi l’articolo 27 della Costituzione sulla riabilitazione dei detenuti. Chi guarderà l’intervista invece potrà apprendere, per dire, che uno come Maso è stato chierichetto e ha studiato dapprima in seminario: i genitori erano religiosi. Potrà apprendere del suo carteggio, dal carcere, col vescovo di Vicenza che celebrò le esequie dei suoi genitori. Chissà che cosa farebbero, i giudici da social, se apprendessero che Maso ottenne anche dei permessi-premio e che l’indulto gli ha accorciato la pena di tre anni. Si arrabbierebbero moltissimo, ma è inutile spiegargli che sbagliano, e perché. Certa gente non è redimibile.
Se Pietro Maso sia davvero redimibile non sappiamo, ma il percorso che la società ha deciso, lui, l’ha fatto tutto. È finito in galera a vent’anni. Ora ne ha quarantasei.