Corriere della Sera, 5 ottobre 2017
Il terrorismo che non si vede
Per gli accademici e alcuni politici il massacro di Las Vegas non è terrorismo. Perché non è emersa finora alcuna motivazione politica. Credo che sia venuto il momento di rivedere questa valutazione: i tempi sono mutati, l’autore dell’attacco ha condotto un’azione terroristica. Lo rivelano i comportamenti, l’impatto sulla sicurezza e cittadini.
Stephen Paddock, nelle settimane precedenti l’attentato, ha compiuto mosse che paiono indicare la volontà di liberarsi di tutto. Ha inviato 100 mila dollari nelle Filippine, forse per costituire un gruzzolo in favore della compagna mandata all’estero. Probabile la volesse lontana al momento dell’assalto. Ha giocato forte al casinò (160 mila dollari), si è come isolato. Dicono avesse manifestato di recente segnali di instabilità mentale che non gli hanno impedito però di pensare agli obiettivi. Non è escluso che avesse in mente di colpire il 22 settembre in occasione di un altro show, nei pressi dell’hotel Ogden. Piano mutato in quanto non avrebbe trovato una situazione logistica favorevole. La sua attenzione si è allora concentrata sul Mandalay Bay, alveare con 3.200 stanze. Come un guerrigliero ha scelto il terreno ideale dove lanciare la sfida: i casinò. Li ha frequentati per anni, abituato alle loro misure, consapevole che le telecamere di sicurezza lo avrebbero ripreso. Se si comportava normalmente nessuno avrebbe fatto domande. Era la sua «giungla».
Designato il «campo» ha costruito l’avamposto. Una suite, con due lati di finestre: la miglior posizione per centrare gli spettatori. Elevata per avere un’ottima visuale e «remota» in modo da creare uno spazio tra lui stesso e la polizia. Se avesse colpito mescolandosi alla folla lo avrebbero neutralizzato quasi subito. Nella stanza 32-315 ha portato 19 fucili modificati usando una decina di borsoni, ha messo fuori il cartellino «non disturbare» sapendo che le cameriere, salvo situazioni particolari, non sarebbero entrate. Ha impilato vicino ai divani i caricatori lunghi da 60 colpi, ha sistemato tre mini-videocamere che trasmettevano le immagini ad un tablet. Due sorvegliavano il corridoio: una nello spioncino, la seconda dentro il carrello del cibo, una terza poggiata su un tavolino. Grazie all’occhio elettronico ha visto avvicinarsi una guardia dell’hotel e gli ha sparato attraverso la porta. Da questo nido per cecchini ha tirato per 9-11 minuti, lo hanno stanato dopo quasi 70. Un’eternità che oggi suscita polemiche e interrogativi se davvero fosse da solo.
Da quando è iniziata la sua preparazione metodica? Presto per dirlo. Sappiamo che ha acquistato legalmente il suo arsenale di 47 bocche da fuoco in un arco di tempo che inizia nell’82: solo 33 dall’ottobre 2016. Non avendo un passato militare è probabile che si sia addestrato a sparare in un poligono oppure nel deserto tra Arizona e Nevada.
Come altri «mutanti» ha giocato sulla sorpresa. E, ancora una volta, i media Usa lo hanno trattato come un episodio dei tanti. Grande copertura della strage, lasciando però l’analisi all’ex poliziotto, allo psichiatra, al sociologo. Ossia una voce esterna. Se fosse stato un gesto dell’Isis avremmo letto il reporter specializzato in grado di spiegare il minimo dettaglio. È come se – a parte il solito dibattito sulle armi – non riuscissero a comprendere la tendenza e le implicazioni. Al contrario gli stragisti guardano lontano, studiano. La tattica usata a Las Vegas è rivelatrice e farà da modello. È provato che questi killer vogliono migliorare le tecniche per fare più vittime. Avremo altri Paddock, agguerriti.
Le polizie d’America parlano adesso di rivedere strategie di intervento e protezione di spettacoli davanti alla nuova minaccia. Come se avessero davanti un jihadista o un neonazista. Comprensibile. L’ex contabile ha assassinato 59 persone, paralizzato una città simbolo, provocato lo stop ai voli per alcune ore, cambiato vite e procedure. In una parola: un terrorista.