4 ottobre 2017
APPUNTI PER GAZZETTA LA MAXI MULTA AD AAMAZON -
BEDA ROMANO, ILSOLE24ORE.COM –
La Commissione europea ha annunciato oggi un nuovo giro di vite nel campo degli illegittimi aiuti di Stato di cui hanno goduto alcune multinazionali grazie a particolari accordi fiscali. L’esecutivo comunitario ha chiesto ad Amazon di rimborsare al Lussemburgo tasse non versate per un totale di 250 milioni di euro. Nel contempo, ha deciso di trascinare davanti alla Corte europea di Giustizia il governo irlandese per non avere ancora recuperato 13 miliardi di euro dovuti da Apple.
«Il Lussemburgo ha dato illegali benefici fiscali ad Amazon, permettendo alla società di evitare qualsiasi tassazione su tre quarti dei suoi profitti nell’Unione europea – ha detto durante una conferenza stampa qui a Bruxelles la commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager –. In altre parole, ad Amazon è stato consentito di pagare ammontari fiscali quattro volte meno elevati di società locali soggette alle stesse regole nazionali. Abbiamo quindi assistito a illegittimi aiuti di Stato».
La decisione contro il Lussemburgo e Amazon giunge dopo una indagine iniziata nel 2014. La società ha goduto di un generoso accordo fiscale dal 2006 al 2014, ha spiegato la signora Vestager. In un comunicato, la società americana ha respinto l’addebito, e spiegato che valuterà la possibilità di fare appello: «Riteniamo che Amazon non abbia ricevuto alcun trattamento speciale dal Lussemburgo e di aver pagato le tasse in piena conformità con la legislazione fiscale lussemburghese ed internazionale».
Sempre oggi, la Commissione europea ha annunciato di avere fatto ricorso contro il governo irlandese, riproverandogli di non avere ancora recuperato illegittimi aiuti di Stato garantiti ad Apple, sempre grazie a un tax ruling. Nell’agosto dell’anno scorso, l’esecutivo comunitario aveva denunciato l’esistenza di un accordo fiscale tra Dublino e la società americana, chiedendo ad Apple di versare all’Irlanda mancato gettito fiscale per 13 miliardi di euro.
«Le regole prevedono che il governo abbia quattro mesi per adempiere alla decisione comunitaria – ha detto la signora Vestager –. Ad oggi, il governo irlandese non ha recuperato il denaro, e neppure parte del denaro. Ci rendiamo conto che la questione è complicata ma ci aspettiamo da parte dei paesi sufficienti progressi». Il tema è delicato per Dublino: il governo teme evidentemente di mettere a rischio il rapporto con le molte multinazionali che hanno sede sul territorio nazionale.
In un comunicato, il governo irlandese si è detto «estremamente deluso» dalla decisione di Bruxelles. «L’Irlanda è pienamente impegnata nel recuperare il presunto aiuto di Stato di Apple», ha spiegato Dublino, notando tuttavia quanto “complessa” sia la questione. L’Irlanda non condivide l’analisi della Commissione europea, ma nel suo comunicato di oggi ha ribadito che intende «rispettare pienamente lo stato di diritto nell’Unione».
Nel corso degli anni, alcuni governi hanno offerto alle multinazionali accordi fiscali che hanno permesso a queste ultime di dirottare utili verso questi paesi nei quali la tassazione era bassa. Bruxelles vede in queste intese possibili illegittimi aiuti di Stato. Ha già preso decisioni relative ai casi di Apple (in Irlanda), di Starbucks (in Olanda), di Fiat e Amazon (in Lussemburgo) e di una trentina di società in Belgio. Ancora aperti sono i casi relativi ad Engie e McDonald’s (sempre in Lussemburgo).
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REPUBBLICA.IT
Il Lussemburgo ha concesso vantaggi fiscali per 250 milioni di euro ad Amazon. Una pratica considerata illegale dall’Antitrust Ue che ha chiesto oggi al Granducato di recuperare la somma dal gigante di Seattle. È quanto scrive la Commissione Europea al termine della sua indagine partita ad ottobre 2014. In pratica - rileva Bruxelles - «tre quarti dei suoi profitti non sono stati tassati» grazie ad un accordo fiscale (Tax ruling) stretto nel 2003.
Il Lussemburgo ha consentito ad Amazon di pagare «quattro volte in meno di tasse rispetto ad altre società» residenti nel Paese, ha detto la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager, spiegando come si tratti di una «condotta illegale» perché "non si possono dare alle multinazionali benefici fiscali che altri non hanno". Secca la replica del sito di e-commmerce: "Noi - si legge in un comunicato - non abbiamo ricevuto nessun trattamento speciale dal Lussemburgo e abbiamo pagato tutto il dovuto, in accordo con il Lussemburgo e con le leggi internazionali".
In seguito ad un’indagine lanciata ad ottobre 2014, Bruxelles ha concluso che un ’tax ruling’ siglato dal Lussemburgo nel 2003, e prolungato nel 2011, ha ridotto le tasse pagate da Amazon "senza alcuna giustificazione valida". L’accordo ha consentito all’azienda di spostare la vasta maggioranza dei suoi profitti da un gruppo soggetto alla tassazione lussemburghese (Amazon EU) ad una società non soggetta ad alcuna tassazione (Amazon Europe Holding Technologies). In particolare, il tax ruling ha appoggiato il pagamento di una royalty da Amazon EU ad Amazon Europe Holding Technologies, che ha significativamente ridotto i profitti tassabili. Secondo la Commissione, il pagamento della royalty, sostenuto dal tax ruling, non rifletteva "la realtà economica del mercato".
Una decisione che ricalca quella presa oltre un anno e mezzo sull’Irlanda, a cui l’Antrust Ue aveva chiesto di recuperare ben 13 miliardi, equivalenti al vantaggo fiscale concesso ad Apple. E sempre oggi la Commissione ha deciso di deferire Dublino per non avere recuperato questa somma.
L’Antitrust, dopo la sua indagine, aveva concluso che Apple aveva pagato "molte meno tasse di altre aziende". L’Irlanda avrebbe dovuto recuperare gli aiuti entro il 3 gennaio 2017, e "finché non li recupera, la Apple continuerà ad avere un vantaggio sugli altri".
Contro la decisione della Commissione si è schiarato il governo irlandese, definendola "estremamente deludente" e un "passo totalmente non necessario". "L’Irlanda non ha mai accettato l’analisi della Commissione, ma il Governo si è sempre impegnato ad assicurare il recupero, destinandogli risorse significative", scrive Dublino in una nota. "E’ estremamente deplorevole che Bruxelles abbia fatto questa mossa", aggiunge.
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MICHELE ROVELLI, CORRIERE.IT -
Non è una cifra ultra-stellare come quella imposta ad Apple poco più di un anno prima (erano 13 miliardi di euro) ma anche per Amazon è arrivata una sanzione consistente: 250 milioni di euro per ripagare l’Unione europea di tasse non versate. La Commissione Ue ha ufficializzato la sua decisione dopo tre anni di indagini: un comportamento «illegale perché le ha consentito di pagare molte meno tasse di altre aziende». In pratica «tre quarti dei suoi profitti non sono stati tassati». Il colosso di ecommerce ha beneficiato per dieci anni di un accordo stretto con il Lussemburgo nel 2003 per avere un trattamento di favore sulle imposte da pagare per il business nel continente europeo. Sia il Paese sia la società hanno sempre negato l’esistenza del patto. Amazon risponde alla Commissione in una nota: «Riteniamo di non aver ricevuto alcun trattamento speciale dal Lussemburgo e di aver pagato le tasse in piena conformità con la legislazione fiscale lussemburghese ed internazionale. Valuteremo le nostre opzioni legali, tra cui il ricorso in appello». Ribatte il Granducato: «abbiamo preso nota» della decisione di Bruxelles e «faremo uso della dovuta diligenza per analizzare la decisione».
Amazon è la terza grande società americana coinvolta in una decisione - e conseguente sanzione - dell’Antitrust Ue dal 2013, grazie a cui è stata portata alla luce una situazione protrattasi per anni di accordi ufficiosi con Paesi europei che hanno permesso loro di fare affari nel vecchio continente con vantaggi fiscali. Il caso più eclatante, come detto, è stato quello di Apple, che il 30 agosto 2016 ha subito una stangata da 13 miliardi di euro. Doveva risarcirli all’Irlanda, ma ancora non sono stati versati. La stessa Isola ha fatto ricorso, insieme a Cupertino, contro la decisione, negando il sistema di aliquote vantaggiose che avrebbe riservato alla società tra il 2003 e il 2014. E non ha - a quanto pare - intenzione di recuperarli. Lo stesso giorno dell’annuncio della sanzione ad Amazon, la Commissione deferisce l’Irlanda alla Corte di Giustizia europea proprio per questo motivo. L’Irlanda aveva tempo fino al 3 gennaio 2017 per farsi risarcire da Apple, ma non ha rispettato la decisione delle istituzioni. Un passo, quello mosso dall’Antitrust, che l’Irlanda definisce «assolutamente non necessario. Abbiamo sempre messo in chiaro che il governo è pienamente impegnato ad assicurarsi che il recupero dei presunti aiuti di Stato ad Apple abbia luogo senza ritardo e ha destinato risorse significative per far sì che questo obiettivo sia raggiunto». Prima, c’era stato il caso di Starbucks nel 2015: tasse inevase per 20-30 milioni di euro in Olanda. Una citazione a parte la merita il Belgio, che ha attirato sul suo territorio le sedi di 35 società con lo stesso schema fiscale illecito.
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MILENA GABANELLI, CORRIERE DELLA SERA 28/9 -
Non diteci più che abbasserete le tasse, perché fino a quando non troverete il modo di farle pagare equamente a tutti, non ci crediamo. A partire da quelli che evadono violando le leggi, ai colossi del web che le leggi le dettano: «metto la sede nel tuo paese se non mi fai pagare le tasse». Mentre negli altri Stati dove operano e fanno utili è impossibile stabilire con certezza i loro ricavi, perché è stata ingegnerizzata la filiera dell’ «immaterialità». Per dare un’idea: un rapporto del Parlamento Europeo ha valutato che i paesi membri tra il 2013 e il 2015 hanno perso gettito per 5,4 miliardi di euro solo per i mancati versamenti da parte di Google e Facebook. I ministri delle finanze si stanno dannando per trovare una soluzione, ma per il momento sono d’accordo solo sul titolo della discussione: web tax. Il ministro delle finanze dell’Estonia ha proposto di valutare la tassa sulla base del numero di clienti residenti in quel paese e che utilizzano quel servizio. Non è una cattiva idea visto che è il solo dato certo. Dai dati Agcom, in Italia Google è stabile al primo posto con 29.653.000 utenti unici, vale a dire il 96% della popolazione che naviga in Internet, per un tempo medio mensile di 6 0re e 44 minuti. Nel mondo dei social media, Facebook ha l’86% del mercato, con 26.474.000 utenti unici che lo utilizzano a persona per 24 ore e 22 minuti al mese. L’orientamento sembra però essere quello di individuare una tassa fissa sul fatturato, cioè sul dato più misterioso.
Cominciamo a fare due conti in Italia, che è anche il primo paese al mondo ad aver fatto scucire a Google 306 milioni di euro per gli utili prodotti in Italia dal 2002 al 2015. Un miracolo, ma sono noccioline. Invece sul 2016, con un mercato in costante crescita (12% nell’ultimo anno), quanto dichiarerà Google? L’ultimo dato disponibile riportato da fonti aperte, e relativo al fatturato italiano del 2015 è di 65 milioni di euro, con imposte pagate per quasi 3 milioni. Probabilmente è il volume d’affari «tracciato», ovvero quello che proviene dai piccoli inserzionisti che pagano con carta di credito: pizzerie, ristoranti, commercianti. Le grandi aziende invece, che sul web stanno investendo sempre di più, pagano con bonifico a Dublino, ma «quanto» Google incassa non lo dice a nessuno, per cui all’Italia nulla è dovuto. In assenza di dati certi l’Agenzia delle Entrate, dal 2016 in poi, dovrà usare la sfera di cristallo, se non cambiano le regole europee.
Per rendere più trasparente il mercato e aiutarlo ad orientarsi l’Upa (Utenti Pubblicità Associati) ha pubblicato il Libro Bianco con l’analisi dei dati forniti da Nielsen e dal Politecnico di Milano. La ricerca si basa sugli investimenti dichiarati da un campione di 160 aziende a rotazione. I due studi arrivano, con uno scarto marginale, alle stesse conclusioni. Se dalla stima totale si cerca di attribuire a Google, per la sola raccolta pubblicitaria digitale (motori di ricerca, youtube, display, classified, ecc) un importo, si arriva ad 1 miliardo e 230 milioni. Mentre la stima per il 2017 arriva attorno ad 1 miliardo e 400 milioni. Siamo ben lontani dai 65 milioni dichiarati. Facebook invece è in discussione violenta con l’Agenzia delle Entrate. Negli ultimi 2 anni ha dichiarato ricavi che non arrivano a 8 milioni di euro e versato poco più di 200.000 euro di imposte (sempre un dato da fonti aperti e non risulta smentito). Sempre dalle stime pubblicate sul Libro Bianco, estraendo il dato che riguarda la parte social, si può quantificare in 400 milioni di euro i ricavi di Facebook per il 2017. Un «sommerso» che si fabbrica sempre nello stesso modo: all’azienda italiana che compra degli spazi su Fb gli vengono fatturati dall’estero, legittimamente, per i trattati di libera circolazione. Poi si difendono dicendo che non possono dare i dati perché quegli spazi comprati dall’azienda italiana non vanno solo sul mercato italiano. Quanto va sul mercato italiano e in lingua italiana lo sanno benissimo, e con un po’ di intelligence qualche dato lo abbiamo scoperto anche noi. Un paio di esempi: su Youtube (Google) nel 2016 Barilla ha investito 1, 9 milioni di euro, CocaCola Italia 6 milioni.
L’Agcom rileva possibili distorsioni nel mercato della pubblicità online, e scrive «Google e Facebook non partecipano ai tavoli tecnici dai quali discendono le decisioni, non consentono a nessun altro sistema di web analytics di tracciare i siti di loro proprietà....l’unico modo per misurare le loro performance è quello di utilizzare le informazioni fornite dai loro sistemi di cui non si conoscono le metodologie di rilevazione e i processi di elaborazione delle metriche». Ovvero, sia il mercato che il fisco, si devono fidare di quello che ti dicono loro. Al contrario di quel che avviene per l’editoria, che dichiara quanto incassa dalla pubblicità sui loro siti. I manager italiani dicono che la riservatezza è imposta dalla policy della casa madre. Detta anche policy di non pagare tasse.
Al summit di Tallin, Italia Francia Germania e Spagna porteranno i punti dell’agenda digitale, fra i quali la necessità di operare il massimo sforzo verso la rete a banda larga ad alta velocità e l’espansione a 5 giga, oltre all’impegno di portare a termine una fibra ottica che sia guida a livello mondiale entro il 2025. Noi italiani, che siamo rimasti ultimi in Europa, ne abbiamo bisogno come il pane, per lo sviluppo delle nostre aziende, visto che ci sono aree del paese in cui la connessione è ancora un desiderio. I primi ad usare queste infrastrutture, a carico dei contribuenti, sono proprio i giganti del web, però non contribuiscono a pagarle. Non contribuiscono come tutti i comuni mortali alle politiche economiche degli stati in cui fanno profitti, perché sono loro sono «volatili». Non stanno da nessuna parte.
Dal summit di Tallin dovrà uscire un’accordo per una fiscalità uguale in tutti i paesi membri, e c’è da augurarsi che non sia un iniquo 3% sul fatturato. Chi deve armonizzare è l’Ocse, che essendo finanziato dalla politica americana ne è anche influenzato. Ricordiamo che la casa madre di Google, Facebook, Microsoft, e Amazon è, appunto, in California. Già Amazon, che sta falciando in tutta Europa milioni di attività, è anche in crescita vertiginosa nella vendita della pubblicità online, ma nessuno ancora stima i suoi volumi. Continuiamo a trattare questo colosso come un venditore di libri, e a cercare la «stabile organizzazione».