il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2017
Ryanair, la crisi del Fidel dei cieli. Ecco perché rinuncia ad Alitalia
È possibile che un rivoluzionario di successo decida di attuare una seconda rivoluzione contro la stessa con cui ha vinto in precedenza? La Storia ci insegna di no: mentre chi perde se può ci riprova, chi vince finisce invece col cristallizzarsi nel suo successo, trasformandosi in tenace conservatore e transitando dalla rivoluzione direttamente all’immobilismo. Michael O’Leary è una sorta di Fidel Castro del trasporto aereo. Dopo aver rivoluzionato due decenni fa i cieli europei, abbattendo l’ancien règime delle compagnie di bandiera, è rimasto sempre fedele ai principi cardine del suo modello: abbattere i costi per stracciare le tariffe e accrescere passeggeri e profitti, quindi aumentare la flotta e ridurre ancora i costi per fare altrettanto con le tariffe e accrescere ulteriormente passeggeri e profitti. Così facendo è passato in vent’anni da una flotta di 18 aerei, 3,6 milioni di passeggeri trasportati e 50 milioni di euro di profitti netti su 250 di fatturato, a una flotta di 383 aerei nel marzo scorso, 126 milioni di passeggeri annui alla fine di agosto e 1,3 miliardi di euro di profitti netti su 6,6 di fatturato nell’ultimo esercizio. All’aumentare vertiginoso di tutti i dati aziendali uno solo è rimasto stabile nel tempo: la profittabilità del vettore, sempre attorno o sopra il 20% del fatturato, un valore mai visto in precedenza nella storia dell’aviazione mondiale.
La strategia del successo s’inceppa in cabina
La rivoluzione di successo di O’Leary sembra tuttavia giunta inaspettatamente a un punto di svolta. Nelle scorse settimane Ryanair ha infatti cancellato duemila voli, gettando nello sconcerto 320 mila passeggeri e tutte le autorità aeree dei principali paesi europei. Pochi giorni fa ha annunciato di ritirarsi dall’acquisto di una parte rilevante di Alitalia, inclusiva del lungo raggio. Infine ha stabilito di cancellare numerose rotte nell’orario invernale e di mettere a terra 25 aerei, con una perdita di almeno 22 mila voli e di oltre quattro milioni di posti offerti, per fortuna solo in minima parte già prenotati. Questi numeri permettono di escludere che si tratti di una crisi passeggera e fanno sorgere in molti il dubbio che possa trattarsi in realtà di criticità nel modello di business. Bisogna allora ricordare che esso è basato su quattro pilastri fondamentali. Il primo è il contenimento spinto dei costi di produzione, attuato tanto sulla flotta, uniforme, di proprietà e acquistata a prezzi bassi grazie ai consistenti ordinativi, quanto sul personale, in gran parte esternalizzato e meno pagato dei concorrenti, e sugli aeroporti, scelti tra quelli secondari, poco trafficati e disponibili a tariffe contenute se non a sovvenzioni. Il secondo è l’elevata discriminazione dei prezzi che ha reso compatibile praticare tariffe anche stracciate, e pertanto far valore chi prima non se lo poteva permettere, realizzando nello stesso tempo proventi medi molto superiori ai costi e una conseguente redditività record. Il terzo elemento, agevolato dal secondo, è l’elevato riempimento degli aerei, superiore al 90% dei posti disponibili. Il quarto e ultimo, conseguenza di tutti i precedenti, è il riuscire a rendere profittevoli, servendole con aerei grandi, rotte che nessun aveva mai coperto prima neanche con aerei regionali di piccola dimensione.
Questi quattro fattori non sembrano in via di attenuazione e tanto meno di estinzione. La crisi in corso è infatti dovuta a una fuga consistente dei piloti, attratti da vettori che pagano molto di più in una fase di crescita molto consistente della domanda di trasporto aereo. Tuttavia se anche O’Leary aumentasse gli stipendi di tutti i dipendenti del 50% i suoi profitti netti si ridurrebbero solo di un quinto. Perché allora non ha agito in anticipo per evitare l’insorgere del problema, disponendo di abbondanti risorse economiche per farlo? Può darsi dipenda dal fatto che la sua rivoluzione sia avvenuta in un periodo di abbondanza di piloti effettivi e di passeggeri potenziali e che questo gli abbia permesso il successo senza tenere in particolare considerazione né gli uni né gli altri. Ma ora i piloti scarseggiano e i consumatori che prima si accontentavano solo di pagare poco ambiscono anche a una qualità più elevata e ogni caso non possono accettare che l’azienda tagli i voli a suo piacimento.
Meccanismo troppo rigido per cambiare
La seconda rivoluzione di O’Leary, quella che non farà pur avendola annunciata quando si è candidato per acquistare Alitalia, è l’ingresso nei voli di lungo raggio. E la ragione dell’impossibilità consiste nel fatto che il suo modello di business ha il difetto fondamentale della rigidità, dell’impossibilità di modificarsi per adeguarsi alle mutate condizioni del settore. Con Alitalia avrebbe potuto offrire voli intercontinentali verso tutto il mondo, estendendo a 360 gradi la sua concorrenza verso i vettori tradizionali, tuttavia l’operare nel lungo raggio richiede l’utilizzo di uno o più hub per convogliarvi i voli di breve raggio e alimentare i voli di lungo. In Italia l’hub non può che essere organizzato a Fiumicino o a Malpensa ma Ryanair a Roma vola principalmente su Ciampino e nell’aerea milanese su Orio al Serio. Dunque in un’ottica di lungo raggio opera negli aeroporti sbagliati e avrebbe dovuto spostare gran parte dei voli da Ciampino a Fiumicino e da Orio a Malpensa, operazione forse possibile ma di sicuro complessa. Inoltre avrebbe dovuto rinunciare a offrire solo voli point to point per adottare il modello hub and spoke, basato su voli in connessione estranei al suo modello, poco adatto a garantire le coincidenze tra i voli. Queste sono le ragioni più serie, rispetto alla crisi prodotta dalla fuga dei piloti, che hanno impedito l’ingresso di O’Leary, nato rivoluzionario ma cresciuto conservatore, nel mercato del lungo raggio e nella proprietà di Alitalia. Qualche altro vettore non tradizionale ci proverà? Oppure il teorema dell’immobilismo del rivoluzionario varrà anche per lui? Tra poche settimane lo sapremo.