il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2017
Standard & Poor’sè stata assolta per incompetenza e opacità
Un’assoluzione che sembra una condanna. Dopo anni di polemiche, il tribunale di Trani ha riconosciuto l’innocenza dei dirigenti dell’agenzia Standard & Poor’s accusati di aver affossato l’Italia nel 2011-2012 con i loro interventi sul rating. Ma le motivazioni della sentenza hanno fatto esultare il pm Michele Ruggiero e innervosito gli innocentisti: secondo il giudice Giulia Pavese non ci fu reato perché non ci fu dolo. Ma ci fu tutto il resto. Ruggiero non si è inventato niente.
Chi gridava allo scandalo per un processo nato dalla stravagante iniziativa di una procura periferica dovrebbe leggersi le 345 pagine della motivazioni depositate il 26 settembre. Scoprirebbe come si muovono i giganti che con i loro giudizi (rating) influenzano il corso dei mercati finanziari: come se pubblicassero report amatoriali e non un elemento di forte rilevanza pubblica che determina, tra le altre cose, le valutazioni della Bce sui titoli di Stato a garanzia dei finanziamenti.
L’agenzia di rating Usa era accusata per una serie di interventi iniziati il 21 maggio 2011 e culminati il 13 gennaio 2012 con il doppio declassamento del debito dell’Italia. Quel giorno, il premier Mario Monti parlò di attacco all’Europa. Per il pm Michele Ruggiero si trattava di una strategia volta a manipolare il mercato destabilizzando il merito creditizio dell’Italia con una “serie di artifici nell’elaborazione e nella diffusione dei rating”.
La sentenza che assolve quattro analisti e l’ex presidente mondiale di S&P, Deven Sharma svela soprattutto discrezionalità e dilettantismo in seno all’agenzia. Il cuore della vicenda è il downgrade di gennaio 2012, per il quale i giudici assolvono gli analisti perchè “il fatto non costituisce reato”. I principi del foro schierati dagli imputati puntavano a “il fatto non sussiste”. La sentenza dice invece che è mancata solo l’intenzionalità di compiere gli artifici. Sono confermati tutti gli elementi di preoccupazione emersi dalle indagini. La sentenza parla dei palesi “profili di incompetenza degli analisti” e spiega che S&P declassò l’Italia sulla base di un dato “sicuramente falso” relativo “all’ammontare del debito netto bancario estero”. “Rimane il dubbio – si legge – se ciò sia avvenuto per mera negligenza o con la coscienza di diffondere al mercato una notizia falsa”. Cosa difficile da appurare per la “reticenza dei testi”. È la vecchia assoluzione con formula dubitativa: se fosse esistito il reato di manipolazione colposa del mercato, sarebbe arrivata la condanna.
Leggendo il dispositivo si trovano una serie di conversazioni intercettate nell’agosto 2011 in cui l’ad di S&P Italia, Maria Pierdicchi spiega al suo capo Sharma di dubitare della competenza degli analisti del debito sovrano e che da quel momento, vista l’indagine in corso, “qualsiasi cosa facciamo riguardo al debito sovrano dovrebbe essere perfetta come da – sai – come da manuale. secondo… secondo le regole. perché sarà analizzata con estrema attenzione”. I giudici trascrivono perplessi (non si fa sempre così?). In un’altra conversazione con una collega, Pierdicchi si complimenta per la scelta dell’analista Gill di rinviare una riunione del comitato rating vista la situazione politica, con il premier Silvio Berlusconi sotto pressione: in questo modo, scrivono i giudici, ha violato il regolamento Ue 1.060 del 2009 che non concede questa discrezionalità. Sarà per la sua attenzione alle regole che, lasciata l’agenzia, la Banca d’Italia nomina Pierdicchi nel cda delle quattro good bank nate dalle ceneri di Etruria e le altre banche salvate a fine 2015.
Per i giudici i report di S&P furono caratterizzati dal “sicuro pregiudizio” verso l’Italia, peraltro a seguito della chiusura nel 2010 di un grosso contratto di consulenza col Tesoro. E per il downgrade da un dato falso sul debito bancario estero, giudicato “elevato”, come emerso da una mail allarmata inviata la mattina del 13 gennaio dall’esperto analista bancario Renato Panichi: letto il rating inviato al Tesoro e infilato nel comunicato ai mercati, Panichi contestava ai colleghi di aver espresso giudizi contrari alla realtà sulle banche, che non avevano problemi di debito estero. La frase fu tolta, ma solo nel comunicato in inglese, come fosse un semplice refuso. Sharma si è giustificato così: “Non era così rilevante. E in ogni caso il comitato era giunto a una conclusione…”. Temendo errori, Panichi aveva ottenuto di ricevere le parti del testo riguardanti le banche anche se non poteva interfacciarsi con il comitato perché in conflitto d’interessi: deteneva titoli di Stato italiani. Un’altra violazione delle regole Ue e delle policy aziendali.
È però l’intero approccio di S&P agli errori che motiva “l’opacità delle metodologie usate” contestata dai giudici. C’è un precedente emblematico. Il 6 agosto Pierdicchi parla con un collega, tale James, del clamoroso “errore” (per trilioni di dollari) fatto rilevare dal Dipartimento del Tesoro americano all’agenzia nel declassare il rating degli Usa. Secondo S&P, l’errore era dovuto ai numeri sbagliati dati dal Tesoro. Ecco lo scambio.
Pierdicchi: “Per cui avete dovuto modificare il … il comunicato stampa?”
James: “No, non l’abbiamo modificato”.
P: “Quindi non c’erano errori?”
J: “Sì. ma il modo in cui è stato riportato dalla stampa qui nel Regno Unito è stato nel senso che (…) che questo è semplicemente ciò che afferma la Casa Bianca. e che l’errore è … è semplicemente una difesa politica”.
P: “Oddio!”
Poco dopo quel declassamento Deven Sharma si dimise per le polemiche.