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 2017  ottobre 03 Martedì calendario

Vi racconto il mio piccolo Einstein primo alle Olimpiadi di matematica

«Ciao mamma, tutto bene. Ci vediamo dopo». Edoardo è fatto così. Per lui è normale superare il primo turno, poi le semifinali e partecipare alla finale nazionale del Kangourou di matematica (le Olimpiadi dei numeri) classificarsi primo, telefonare a casa e dire: «Tutto bene». 
Questo non è un articolo facile perché l’Edoardo in questione è mio figlio e l’emozione è un’onda senza risacca che toglie il fiato. Non è facile essere oggettiva se devi scrivere del tuo ragazzino e perché se Edo sapesse che il suo nome e la sua faccia finiscono sui giornali sgranerebbe gli occhi enormi e, con la sua erre alla francese, direbbe: «Mamma, sui giornali ci vanno le cose importanti. Io non ho fatto niente di speciale». Questa volta, caro Edo, non ti ascolto. 
LA GARA 
Eravate partiti in 28mila a marzo e domenica, a Cervia, hai sbaragliato i quarantasei finalisti della categoria “Benjamin”, con ragazzini dai dodici ai tredici anni, quasi tutti con uno, anche due anni più di te. Sei stato il primo a consegnare il compito e l’unico dei vincitori delle cinque categorie a non sbagliare neanche un esercizio. E mai che ti abbia visto studiare, spaccarti la testa su quesiti di logica, mai che tu abbia rinunciato a qualche pomeriggio con i tuoi amichetti per arrivare preparato alla gara. Hai continuato a far rimbalzare la tua palla da basket, a consumarti le dita per giocare con i videogiochi, a vedere le partite di calcio delle squadre più strane, a tifare Milan e a leggere come un forsennato i libri che ti interessano: storia, astronomia, fumetti... Tu sei intelligente ma, se permetti, sono io la giornalista e saprò riconoscere una notizia. Questa vittoria lo è. 
Edoardo ha undici anni e frequenta la seconda media, ha un quoziente di intelligenza molto più alto della media e un talento straordinario per la matematica. «Come fa a sapere e capire tutte queste cose?», mi chiedono da anni le persone stupefatte davanti alle sue competenze, alla facilità con cui da sempre risolve problemi incomprensibili ai più. È un mistero, una domanda a cui cerco di trovare una spiegazione ogni volta che gli si accende un lampo negli occhi davanti a una funzione o a un’equazione di ennesimo grado. Per me che ho passato la vita a fuggire dai numeri, che alle superiori copiavo i compiti e all’Università ho fatto gli slalom tra i piani di studio per evitare qualsiasi esame che avesse a che fare con un concetto matematico, è davvero un enigma che mi riempie di stupore. Il papà? Bravo, ma solo perché studiava. 
Edoardo è nato così. Da piccolo diceva di amare i numeri più di qualsiasi altra cosa al mondo, li guardava bramoso come gli altri bimbi vedono le caramelle. Nel passeggino era attratto dal susseguirsi dei numeri civici sui muri dei palazzi e subito ha capito che “saltavano”. E quando, a tre anni, ha scoperto che i numeri sono infiniti gli si è spalancato un mare in cui nuotare beato e sicuro. Quando lo portavo con me al supermercato, calcolava il totale da pagare prima che arrivassi alla cassa e lasciava di sasso le povere cassiere. 
LA PASSIONE 
Oggi lui riesce a decifrare quelle che per noi sono sequenze di numeri messe lì a caso. Gli basta un colpo d’occhio distratto. Fino a qualche anno fa faceva domande complicatissime su ogni argomento dalla fisica alla medicina e ogni volta noi genitori restavamo inebetiti, con lo sguardo perso nel buio cercando di trovare un appiglio che poi diventava la solita scusa: «Amore, l’ho studiato ma in questo momento non ricordo. Se vuoi cerchiamo insieme la risposta». Adesso non chiede più: va a cercarsi da solo le risposte. In questi anni ho voluto tenerlo al riparo dalla morbosità della gente perché lui è prima di tutto un bambino. E ho voluto che giocasse con i coetanei, che imparasse a dare un nome alle emozioni, che praticasse sport. Temevo che fosse emarginato perché i bambini sono mediamente cattivi e perché qualsiasi tipo di diversità fa paura. Ha saltato solo una classe per evitare che ci fosse una grande differenza d’età tra lui e i suoi compagni. In Italia non esistono classi per questi bambini che gli americani chiamano “gifted”, dotati, e che valorizzano con programmi e scuole speciali ma che nel nostro Paese talvolta non vengono neanche riconosciuti e spesso etichettati come “iperattivi”. Non dovremmo stupirci che l’Italia non coltivi i propri talenti: è lo stesso Paese che permette che i suoi cervelli migliori scappino all’estero. La scuola è frustrante perché per quanto i prof siano stimolanti, per quanto cerchino di coinvolgerlo in progetti alternativi, sente ripetere concetti che conosce da tempo. «È come una Ferrari costretta a viaggiare in città», ci ha spiegato Annamaria Roncoroni, presidente dell’Aistap (associazione per lo sviluppo del talento e della plusdotazione) che lo segue da tempo. 
IL ROMPISCATOLE 
I compagni non lo chiamano secchione perché i suoi libri a fine anno profumano di nuovo e lo ritrovano in prima fila quando c’è da giocare a pallone. E poi, quando la prof chiede se qualcuno vuol fare per primo l’esercizio di matematica c’è lui che salva la classe. Per tutti è un “genietto”, ma per me è un meraviglioso rompiscatole perché ha sempre una domanda in più e la risposta giusta per ogni cosa. Lui parla e tu lo ascolti attento perché sai che ha ragione. A pensarci bene, anche domenica quando dopo la vittoria mi ha chiamato e ha detto: «Mamma, è andato tutto bene», aveva ragione.