La Stampa, 3 ottobre 2017
La precipitosa firma dell’Isis serve a creare altri lupi solitari
L’Isis rivendica l’attacco a Las Vegas per due ragioni. O è vero, e allora gli organi ufficiali del califfato, Al-Furqan in testa, nei prossimi giorni forniranno qualche elemento concreto per accreditare la rivendicazione. Oppure, più probabilmente, cerca soltanto di «metterci il cappello sopra» per ragioni propagandistiche, per alzare il morale dei suoi seguaci in Occidente e sperare che qualche potenziale jihadista sia spinto a imitare il gesto di Stephen Paddock.
La rivendicazione sull’agenzia semi-ufficiale Aamaq arriva nel pomeriggio di ieri, circa dodici ore dopo il massacro. Il comunicato è scarno ma simile ad altre rivendicazioni di attacchi compiuti da assalitori solitari, come a Berlino, Manchester, Londra. «Un soldato dello Stato islamico» ha colpito a Las Vegas, negli Stati Uniti, come ritorsione contro «la coalizione» occidentale che combatte l’Isis. Al primo lancio ne segue un altro, per precisare che Paddock si è convertito all’islam «alcuni mesi fa», uno per dare maggiore credibilità alla matrice islamista, esclusa dalle autorità statunitensi e non supportata dai codici classici, a partire dall’urlo «Allah è il più grande» (come domenica a Marsiglia).
In serata un comunicato ufficiale dell’Isis dà maggiori dettagli: Paddock avrebbe «pianificato l’attacco», che ha provocato «600 fra morti e feriti», e assunto il nome di battaglia di Abu Abdel Bir al-Amriki. Il killer però non rientra nei canoni del «soldato» dell’Isis. Bianco, anziano, senza ascendenze mediorientali, mentre i seguaci dello Stato islamico in Occidente sono per lo più giovani, legati in qualche modo a Stati musulmani, spesso sbandati o mal integrati. L’unico killer di mezza età usato finora dall’Isis è Khalid Masood, il 52enne britannico, un convertito, che il 22 marzo scorso si è gettato sulla folla con il suo Suv davanti a Westminster, nel centro di Londra. Anche Masood era stato definito un «soldato dello Stato islamico».
Un altro elemento che suscita dubbi è il suicido finale del killer. I «soldati» islamisti tendono a farsi uccidere dalle forze di sicurezza. E, soprattutto, rendono noto il loro giuramento di fedeltà, bayah, al califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Con un messaggio, un video inviato ai siti jihadisti, o addirittura con una diretta su Facebook, come ha fatto Larossi Abballa, nel luglio del 2016, dopo aver ucciso due agenti di polizia a Magnanville, in Francia. Diverso il caso di Omar Mateen che il 12 giugno 2016 a Orlando, in Florida, ha ucciso 49 persone e rivendicato, ma in modo confuso, la sua appartenenza all’Isis in una telefonata con la polizia.
Ieri sera non era ancora emerso nessun elemento che leghi Paddock a qualche gruppo jihadista. Se non accadrà nei prossimi giorni la rivendicazione non avrà seguito ma intanto sarà servita a «scaldare» altri potenziali terroristi. Questa è una delle funzioni dell’Aamaq: fa parte di una macchina propagandistica sempre più decentrata, che usa materiale prodotto in Arabia Saudita, Somalia, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, ovunque i jihadisti hanno santuari, poi inviato alla sede centrale in Siria e diffuso con il marchio ufficiale. L’Isis, anche se ridotto all’angolo nel califfato siro-iracheno, continua a investire molto nei media: chi produce video viene pagato cinque, sei volte di più di un combattente.