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 2017  ottobre 03 Martedì calendario

Borsa, mille miliardi in più di titoli hi-tech

Non è solo Apple. Anzi la casa della «mela morsicata», pur guadagnando nel 2017 oltre il 32%, non è tra le lepri tecnologiche di Wall Street. Molti altri hanno fatto meglio: da Activision(+75,96%) con i suoi videogame al «re» dell’opensource Red Hat (+57,2%) fino a Facebook (47,6%). Al di là di ciò, è però indubbio che la casa di Cupertino ha aiutato la spinta alla capitalizzazione dei titoli hi-tech dell’S&P 500. Una market cap che, da inizio anno, in dollari è cresciuta di 1.037 miliardi. E che in euro, al cambio di giovedì scorso, vale 879,98 miliardi. Si tratta di un bel balzo cui possono aggiungersi le società europee. Qui l’incremento del settore tecnologico dello Stoxx 600 (ben più limitato)è di 74,07 miliardi. Un valore che porta, sempre in euro, la crescita complessiva tra Usa ed Europa a oltre 954 miliardi. Insomma: da inizio anno i titoli hi-tech valgono circa mille miliardi in più.
Al che il signor Rossi domanda: quali le motivazioni di questa dinamica? In primis, ovviamente, c’è il contesto di crescita generale dei listini. L’S&P 500, ad esempio, ha raggiunto venerdì scorso l’ennesimo record storico a 2519,44 punti. Una corsa incredibile nei cui confronti, da un lato, molti esperti denunciano il rischio-bolla; ma che, dall’altro, non pare fin qui dare segni di cedimento. Nonostante, infatti, la Fed abbia avviato la stretta monetaria la liquidità in circolazione resta enorme. Un «monetadone» in cerca di rendimento che, per l’appunto, sostiene i corsi azionari.
Ciò detto il mondo delle tecnologie ha comunque fatto meglio dei panieri generali: da inizio gennaio, a Wall Street, è salito del 25,08% (chiusura al 28/9/2017) mentre il rialzo dell’S&P 500 va poco oltre il 9%. In Europa, invece, l’hi-tech ha guadagnato il 17,89% contro il +7,39% dello Stoxx 600. Una sovraperformance riconducibile a cosa? «Al di là delle singole storie aziendali -spiega Enrico Malverti, membro del board di Cyber trade – è l’effetto della rivoluzione informatica e digitale che coinvolge l’economia globale». Un tempo si dovevano avere in portafoglio i titoli di General Motors o At&T. «Adesso, invece, non si può non investire nei big della tecnologia e nelle start up del FinTech o della robotica». In tal senso basta guardare al Global Robotics e Artificial intelligence Index. Il paniere, rappresentativo delle realtà che traggono benefici dalla diffusione dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, è salito nel 2017 del 46%. La dimostrazione, analogamente alla crescita delle biotecnologie (+25,97%), di quanta voglia d’innovazione e hi-tech ci sia tra gli investitori.
Ma non è solo la rivoluzione robotica. Sono rilevanti anche i più «prosaici» buyback. Seppure, nel secondo trimestre 2017, il riacquisto delle azioni proprie sull’S&P 500 sia calato è da tempo che le società hi-tech sostengono in questo modo le loro azioni. Il che non stupisce. La liquidità accumulata, ad esempio, da Apple al 1° luglio scorso era di 261,516 miliardi di dollari. Un valore «monstre» che viene in parte usato in simili operazioni. E non solo: i gruppi hi-tech, nel passato considerati solo titoli hi-growth, adesso puntano sui dividendi. Microsoft, ad esempio, lo scorso 19 settembre ha annunciato una cedola trimestrale di 0,42 dollari per azione (+7,6% rispetto al quarter precedente). Certo: l’azienda fondata da Bill Gates è sulla breccia da diversi lustri. E, tuttavia, la traiettoria descritta è trasversale a molte società tecnologiche.
Già, le società tecnologie. Queste, a ben vedere, si avvantaggiano(come tutte le altre) anche delle attese rispetto al taglio delle tasse sugli utili aziendali. La Casa Bianca vuole ridurre la corporate tax al 20% dall’attuale 35%. Un’ulteriore, per adesso potenziale, spinta ai profitti, ai dividendi e in definitiva ai corsi azionari.
Tutto rose e fiore, quindi? La realtà è più complessa. «Il gigantismo di diverse aziende -spiega Antonio Cesarano, di Mps Capital Services – ha aumentato il peso dei loro titoli sui singoli panieri». Le big five (Apple, Microsoft, Amazon, Google, Facebook) incidono per il 42,21% sul Nasdaq. «Inutile dire che, a fronte di una simile concentrazione, basta che qualcosa vada storto ad una singola società per avere un impatto sull’intero indice». Il che non è positivo.