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 2017  ottobre 03 Martedì calendario

Addio a «Si». Newhouse il magnate dell’editoria che amava la cultura

NEW YORK Con la morte di Samuel Irving Newhouse Jr, scomparso domenica a New York all’età di quasi novant’anni (li avrebbe compiuti a novembre), se ne va uno degli ultimi rappresentanti di un mondo che ha forgiato e dominato la cultura, non solo americana, degli ultimi cinquant’anni. “Si”, come era chiamato dagli amici, era un titano dell’editoria ma soprattutto un uomo che incarnava come pochi altri la più imprescindibile delle qualità di coloro che hanno reso grande l’America: la visione, lo sguardo aperto e profetico sul futuro.
Per comprenderne il potere basti pensare che in occasione del suo compleanno bloccava il Mo-MA per un’anteprima mondiale del film più atteso dell’anno, e chiedeva ad Andrew Sarris, il più grande critico americano, di presentare la pellicola spiegandone l’importanza. Le serate proseguivano quindi nel suo spettacolare appartamento affacciato sul fiume Hudson, dove interveniva la crema della città, in un rito che contemplava sempre lo stesso menù, a cominciare dalla torta inglese al rabarbaro. E quelle cene esclusive consentivano di ammirare anche una delle più belle collezioni d’arte del mondo: alle pareti opere di Van Gogh, Cézanne, Jackson Pollock, Jasper Johns, Lucian Freud, Francis Bacon e molti altri, affidate a un curatore privato, che ogni tanto cambiava posizione ai capolavori. Una collesione che negli ultimi anni si è arricchita con le opere di Damien Hirst, Jeff Koons e Giacometti.
È stato un filantropo e un mecenate delle arti, ma anche un uomo d’affari dal fiuto ineguagliabile: nel 1978 acquistò Random House, la più importante casa editrice americana, per 60 milioni di dollari, per rivenderla poco più di quindici anni dopo per 1,4 miliardi. Il suo nome è associato soprattutto alla proprietà del gruppo editoriale Condé Nast, nonostante ciò rappresentasse soltanto una parte del suo impero. La acquistò nel 1959 per accontentare la prima moglie Mitzi, che amava Vogue, ma poi cominciò ad appassionarsi alla nuova avventura: la sua linea editoriale era quella di non pubblicare riviste che vendessero meno di un milione di copie, con l’eccezione di AD. Fanno parte dell’impero anche Vanity Fair, GQ, Condé Nast Traveller. E il New Yorker, la più importante rivista culturale del mondo, tenuta in vita da lui anche quando perdeva fino a 20 milioni di dollari l’anno.
Newhouse intuì prima di ogni altro come stava cambiando il mondo dell’informazione e mutò radicalmente il modo di proporre le notizie: il glamour acquista un ruolo centrale, arricchito tuttavia di pezzi di primissima qualità. In particolare su Vanity Fair. Si è trattato di una rivoluzione irreversibile, che lui realizzò offrendo compensi straordinari quanto inediti, e teorizzando che nel mondo dell’arte e della cultura «lo spreco è essenziale per ottenere qualcosa di valido».
Chi lo ha frequentato recentemente lo ricorda molto provato nel fisico ma ancora attento alle scelte imprenditoriali: è stato lui a occuparsi in prima persona del trasferimento del quartier generale della Condé Nast nella Freedom Tower, il grattacielo costruito sulle rovine di Ground Zero. Negli ultimi tempi ricordava spesso i genitori, ebrei russi, e l’università di Syracuse, la sua alma mater, dove poi ha finanziato la più importante scuola di giornalismo del paese. E a chi gli chiedeva di raccontare le sue maggiori passioni parlava degli unsung heroes, gli eroi anonimi, i grandi non celebrati dai media: «Tutti ricordano Joe Louis e Rocky Marciano: ma io voglio bene a Ezzard Charles, ha perso con entrambi ma è stato anche lui campione del mondo».