Corriere della Sera, 3 ottobre 2017
Imporre i film italiani in prima serata tv è una boiata pazzesca, sostiene Aldo Grasso
Migliorerà il cinema (non ne sono sicuro), peggiorerà la tv (ne sono sicurissimo). A volte le buone intenzioni generano effetti perversi e questo temo sia l’esito ultimo del decreto per le quote tv. Che forse aveva un senso trent’anni fa, prima della rivoluzione digitale, ma che oggi pare solo una forma di protezionismo fuori tempo. I palinsesti tv, bene che vada, saranno riempiti da tutti quei film finanziati dallo Stato (sono tanti) che non riescono a essere distribuiti nelle sale per quanto sono modesti. Nel corso degli anni Duemila, la serialità americana ha completamente trasformato lo scenario mediatico cancellando la distinzione fra cinema e tv, ha rotto confini geopolitici irridendo l’autarchia, ha indicato strade da percorrere. Che sono quelle di sviluppare al meglio i linguaggi e i modelli produttivi, di creare programmi «da vedere», rivedere e commentare, emblemi di una testualità che svolge oggi lo stesso ruolo della letteratura: sviluppare narrazioni complesse, rappresentare in modo articolato i grandi temi, coinvolgere a più livelli un pubblico popolare e insieme più colto. Questo bisognava chiedere al Servizio pubblico e ai film finanziati dalla Stato, pur sapendo che di Zalone ce n’è uno solo. In termini tecnici significa concentrarsi su un numero limitato di titoli sorretti però da grandi investimenti, da coinvolgimenti di personalità letterarie e cinematografiche nel ruolo di sceneggiatori e registi. L’Italia è pronta a questo salto, a entrare nella contemporaneità? Ci si salva con la qualità mai con la quantità: imporre in prima serata film e fiction italiane significa solo incentivare la modesta produzione attuale. Che, salvo rari e lodevoli casi, è regolarmente fermata alla frontiera di Chiasso.