National Geografic, 1 settembre 2017
I gorilla di Dian Fossey
Per più di dieci anni Dian Fossey visse da sola in una casupola umida e sperduta che lei stessa costruì fra due montagne. Qui bolliva l’acqua con cui si lavava, mangiava cibo in scatola e leggeva e scriveva al lume di una lanterna.
Poco dopo l’alba, due gorilla di montagna scavalcano con grazia il muretto di pietra che delimita il Parco nazionale dei Vulcani, nel Ruanda nordoccidentale, atterrando leggeri sull’erba rasata. I due silverback attraversano i campi coltivati, prima a quattro zampe, poi in posizione eretta. Si avvicinano ad alcuni eucalipti e cominciano a scavare le cortecce con gli incisivi. Poi si uniscono alcune femmine e giovani appartenenti al loro gruppo (il Gruppo Titus, come lo chiamano i ricercatori) e si spostano tutti insieme in un boschetto di lunghi e sottili bambù.
Quella stessa mattina l’italiana Veronica Vecchio, responsabile del programma di tutela dei gorilla del Dian Fossey Gorilla Fund International, risale un pendio boscoso dei monti Virunga avvolto dalla foschia e si siede su un tronco caduto per controllare a distanza un silverback battezzato Urvvibutso. È uno di quelli che scavalcano spesso il muretto; ora sta arrotolando con cura delle foglie di cardo prima di infilarsele in bocca. Quando si volta verso di lei, Vecellio gli scatta una foto e ingrandisce una ferita che Urwibutso ha sul naso.
«Stamattina ha combattuto con un altro silverback di Titus», sussurra concentrata (il nome silverback, “dorso d’argento”, deriva dalla striscia di pelo bianco che compare sul dorso dei maschi al raggiungimento della maturità sessuale).
Da una decina d’anni il Gruppo Titus se la svigna dal parco scavalcando il muro, spiega la Vecellio, e ogni anno si spinge più lontano. Una situazione che desta qualche preoccupazione: per ora i gorilla non mangiano le patate e i fagioli dai campi dei contadini, ma potrebbero cominciare a farlo, e comunque uccidono gli alberi, che sono una risorsa preziosa, e vengono a contatto con gli escrementi di esseri umani e bestiame, carichi di patogeni. Il rischio che i patogeni si trasferiscano da una specie all’altra è alto, mentre le probabilità di sopravvivenza di un gorilla a una violenta epidemia sono scarse. Perciò quando il Gruppo Titus arriva a un tiro di schioppo dalle casupole di legno e fango di Bisate, un villaggio di circa io mila anime, le guardie del parco ricacciano i gorilla su per i monti agitandogli davanti dei pali di bambù.
QUANDO LA STATUNITENSE DIAN FOSSEY arrivò in Africa alla fine degli anni Sessanta per studiare i gorilla di montagna su invito dell’antropologo Louis Leakey con il sostegno economico della National Geographic Society, non aveva alcuna esperienza nella ricerca sulla fauna selvatica. Nel 1973 la popolazione di questi grandi primati dei Monti Virunga era crollata a 275 individui; oggi, grazie a un massiccio intervento di conservazione fatto di monitoraggio costante, controlli intensivi antibracconaggio e interventi veterinari d’emergenza, se ne contano circa 480. Un incremento che rappresenta una manna in termini di diversità genetica. Per anni i ricercatori avevano documentato evidenze di endogamia nella popolazione come palatoschisi 0 mani e piedi palmati.
Ma l’aumento della popolazione ha anche risvolti negativi. «I gruppi sono diventati più grandi», spiega Vecellio. Nel 2006 il Gruppo Pablo comprendeva 65 individui; oggi è sceso a circa 25, ma resta comunque grande quasi il triplo rispetto a un gruppo medio di gorilla dei Monti Virunga dell’Uganda e della Repubblica Democratica del Congo. «E in certe aree è aumentata anche la densità dei gruppi», aggiunge la ricercatrice.
Gli scontri fra gruppi, che possono sfociare nel ferimento di gorilla 0 in infanticidi per eliminare i geni di un maschio rivale, sono sei volte più frequenti rispetto a dieci anni fa. «Abbiamo notato anche un aumento dei livelli di stress», dice Vecellio, ed è possibile che con esso aumenti anche l’esposizione a malattie legate allo stress.
Questi problemi non sarebbero così gravi se i gorilla avessero a disposizione spazi sterminati. Ma il Parco nazionale dei Vulcani sorge su un’area di appena 160 chilometri quadrati, lambita da un mare crescente di umanità in cerca di pascoli e terreni agricoli. In barba al regolamento del Parco, la gente dei villaggi sconfina abitualmente nell’area protetta per fare legna, andare a caccia, raccogliere miele e, nella stagione secca, fare scorta d’acqua.
A giudicare dall’incursione mattutina fra eucalipti e bambù, è evidente che il Gruppo Titus si trova bene fuori dalla foresta. Ma i gorilla hanno scarse difese immunitarie contro le malattie umane, e la noncuranza che dimostrano verso l’uomo li rende vulnerabili.
E se i visitatori del parco sono perlopiù ignari di queste dinamiche interne, i ricercatori che studiano i gorilla di montagna ruandesi sono consapevoli del fatto che stanno documentando un momento molto importante: non solo la popolazione di una specie a rischio di estinzione sta aumentando, ma si prospetta anche una possibile revisione delle regole adottate per governarne il comportamento sociale.
Dian Fossey, qui fotografata nel 1969 con una maschera da teschio, approfittava delle superstizioni popolari per scacciare gli allevatori dalla foresta.
In più distruggeva trappole, fustigava i bracconieri con fasci di ortiche e saccheggiava i loro accampamenti.
Camminando nel fango e tra ortiche altissime impiego quasi due ore dalla periferia di Bisate per raggiungere il centro di ricerca fondato da Dian Fossey nel 1967 fra i monti Karisimbi e Visoke. Nato da un accampamento di due tende che Fossey battezzò Karisoke, oggi il centro comprende una quindicina di casupole e piccoli fabbricati in un bosco di hagenia, alberi drappeggiati di muschio che svettano fino a 25 metri d’altezza. Ora come allora, accanto alla radura scorre un ruscello. Quando scomparve il cadavere di un piccolo gorilla, Fossey passò ore e ore sulle sponde di quel ruscello a esaminare escrementi di gorilla adulto, cercando una prova di cannibalismo che però non trovò mai.
Dopo l’omicidio della Fossey, uccisa nel suo letto nel 1985 in circostanze tuttora misteriose, a Karisoke si è continuato a fare ricerca. Nel 1994, durante il genocidio del Ruanda, il centro è stato chiuso e alcuni ribelli che attraversavano la foresta lo hanno saccheggiato. Oggi il Karisoke Research Center si è molto ingrandito, e ha sede in un moderno palazzo d’uffici nella vicina Musanze; nel vecchio sito, le uniche tracce di presenza umana rimaste sono le pietre di fondazione e qualche tubo di stufa.
Malgrado l’arrampicata, le piogge torrenziali e temperature che possono scendere sotto lo zero, ogni anno arrivano a Karisoke circa 500 persone per rendere omaggio a Dian Fossey. Molti l’hanno conosciuta grazie al suo libro Gorilla nella nebbia, dal quale è stato tratto l’omonimo film del 1988. In questa occasione, però, il sito è quasi tutto per me. Mentre esploro i dintorni cercando di immaginare come viveva la ricercatrice, i custodi grattano via i licheni dai cartelli di legno sulle tombe di 25 gorilla. All’uscita di questo rustico cimitero, una targa di bronzo segnala la tomba della stessa Fossey.
Donna alta e schietta, Dian Fossey non era amata da tutti. Molti abitanti del posto la consideravano un’intrusa 0 una strega, e di fatto rappresentava una minaccia per chi dipendeva dalla foresta per la propria sussistenza.
Quando arrivò, Fossey mise subito in chiaro le sue priorità: scacciò allevatori e bestiame dal parco perché gli animali calpestavano le piante di cui i gorilla preferivano nutrirsi, costringendoli a risalire i monti fino a quote troppo fredde. Ogni anno distruggeva migliaia di trappole e lacci per antilopi e bufali; i lacci non uccidevano i gorilla, ma potevano ferirli. Catturava i bracconieri e li fustigava con le ortiche, bruciava le loro capanne, confiscava le loro armi e una volta prese addirittura in ostaggio il figlio di uno di loro. Ma la tattica più efficace di Dian Fossey – e l’eredità più duratura che ha lasciato – era quella di pagare la gente del posto per pattugliare il parco e fare pressione sulle autorità ruandesi per far rispettare le leggi antibracconaggio. Aveva un carattere spigoloso ma, come disse l’esperta di scimpanzé Jane Goodall: «Se non ci fosse stata Dian, probabilmente oggi non ci sarebbero più gorilla di montagna».
Mentre osservo la semplice targa sulla sua lapide, rifletto sulle cose straordinarie che ha fatto nella vita: i 18 anni nella foresta, le battaglie per raccogliere fondi, le lotte per la legittimazione accademica, per la propria salute fisica, per un legame affettivo. E non c’è ironia nel fatto che Fossey abbia mostrato al mondo un regno prevalentemente pacifico di gorilla affiatati tra loro, mentre la sua vita era caratterizzata da amarezza e diffidenza. «Era sola e odiata da molti», dice Vecèllio.
La tomba di Dian Fossey si trova a pochi metri da quella di Digit, il silverback pugnalato e decapitato dai bracconieri che lei stessa, seppure a malincuore, trasformò in fonte di entrate con la creazione del Digit Fund. Infatti, benché avesse un disperato bisogno di denaro per pagare i suoi aiutanti e le squadre antibracconaggio, Fossey non sopportava l’idea di trarre guadagni dall’ecoturismo; secondo lei i turisti che, nonostante la sua opposizione, a partire dal 1979 cominciarono ad affluire a Karisoke per vedere i gorilla erano un pericolo che poteva contribuire all’estinzione della specie. Eppure fu proprio grazie all’abilità con cui pubblicizzò i suoi studi con conferenze e articoli che i gorilla salirono alla ribalta mondiale. E fu lei a capire come abituare i gorilla alla presenza umana, fattore essenziale per questo genere di turismo.
Il Ruanda tollerava a malapena Dian Fossey da viva; le autorità le negarono più volte il visto e boicottarono i suoi sforzi per contrastare il bracconaggio. Ma quando fu uccisa il paese capì subito che la sua morte, e la sua sepoltura in un parco nazionale, «avevano un enorme valore simbolico», come dice Veronica Vecellio. «Quell’evento ha dato impulso alla salvaguardia dei gorilla e ha portato sostegno internazionale alla causa». L’anno scorso il Parco ha attirato oltre 30 mila visitatori, ognuno dei quali ha pagato 750 dollari per un incontro di un’ora con un gruppo di gorilla. Il prezzo, schizzato di recente a 1.500 dollari, finanzia monitoraggio e sorveglianza e assicura l’impegno dello Stato per la tutela della specie. Un maggior numero di visitatori significa anche più introiti per le comunità locali grazie a un piano di ripartizione che crea una positiva reazione a catena per le attività commerciali.
E le opportunità legate al turismo possono crescere ancora. In collaborazione con il Massachusetts Institute of Technology, il governo ruandese sta vagliando la possibilità di una stazione di ricerca climatica sulla cima del Karisimbi, a quota 4.507 metri; una funivia porterebbe i ricercatori all’osservatorio e i turisti a una zipline sul cratere. Temendo che il progetto possa distruggere l’habitat dei gorilla, le organizzazioni ambientaliste hanno chiesto uno studio dell’impatto ambientale.
In tarda mattinata la mia guida individua il Gruppo Sabyinyo in una foresta di bambù appena fuori dal confine del Parco. Un colossale silverback ribattezzato Gihishamwotsi sorveglia tranquillo un harem di femmine con piccoli, seduto in una radura di felci e lobelie immense. Ogni tanto grugnisce, scatenando le risposte gutturali di altri gorilla nascosti nella vegetazione. Quando all’improvviso si alza e si batte il petto, chi reagisce – con spavento – più di chiunque altro è la sottoscritta.
Dopo aver guardato documentari naturalistici per una vita, e sapendo che gorilla ed esseri umani condividono il 98 per cento del DNA, pensavo che vederli in carne e ossa non sarebbe stato particolarmente emozionante. Ma a due metri di distanza resto senza parole: i piedi dei piccoli, lisci e polposi come patate dolci; le dita delle madri, grosse come salsicce... Anche la familiarità dei loro gesti mi stupisce: si grattano come noi! Giocherellano con le dita dei piedi! Abbracciano i piccoli stringendoli al viso! Sull’onda di questa epifania, però, arriva il senso di colpa per aver invaso la loro intimità.
Al termine della mia ora corro giù dalla montagna per conoscere Winnie Eckardt in una stanzetta del Karisoke Research Center. La responsabile della ricerca del Centro indica la sfilza di campioni ghiacciati alle sue spalle con un gran sorriso. «Benvenuta nel laboratorio della cacca», dice. Eckardt studia i gorilla di montagna dal 2004 e oggi sovrintende alla raccolta e all’analisi mensile dei campioni di feci di 130 animali, feci che oltre a ormoni, enzimi e Dna contengono virus e parassiti.
«L’endocrinologia della fauna selvatica sta diventando una disciplina sempre più importante», dice, «ed è uno strumento molto efficace». Dalle feci dei gorilla si estrae il cortisolo, l’ormone dello stress, che messo in relazione con gli scambi osservati fra individui può chiarire molte cose. «Ora possiamo affermare che questo 0 quel tipo di interazione è causa di stress», continua Eckardt.
Nel 2014 una serie di osservazioni su demografia e comportamento di gruppi di gorilla sono state confrontate con analisi genetiche di Dna estratto da campioni di feci. I risultati gettano luce su alcune differenze fondamentali fra le distanze raggiunte da maschi e femmine che abbandonano il proprio gruppo natale, uno dei fattori che determinano la struttura genetica di una popolazione.
Il sequenziamento del Dna dei gorilla racconta anche molto sulla paternità. «Dagli studi abbiamo appreso che il silverback dominante è padre della maggior parte dei cuccioli di un gruppo, ma non di tutti», spiega Eckardt. Anche il secondo e il terzo maschio dominante del gruppo, quindi, tramandano i propri geni, e ciò solleva interrogativi ancora più interessanti: cosa induce un silverback non dominante a decidere se restare in un gruppo 0 se cercare di sedurre qualche femmina per creare un gruppo nuovo? Quali sono i fattori legati al successo riproduttivo? Come si conserva la supremazia?
Rivelando prove di endogamia e il successo di determinate stirpi familiari, l’analisi del Dna influenza anche le politiche di conservazione. «Se la dirigenza di un parco può salvare solo un certo numero di gruppi di gorilla», dice Winnie Eckardt, «sceglierà gruppi imparentati fra loro alla lontana. L’endogamia è causa di comportamenti anormali o problemi di salute». Una minore diversità genetica significa inoltre che i gorilla sono più vulnerabili alle malattie e ai mutamenti determinati dal cambiamento climatico.
Quasi 300 articoli scientifici sono stati pubblicati sulla base dei dati raccolti a Karisoke, ma c’è ancora molto da imparare. «Se un ricercatore avesse condotto uno studio tra il 1997 e 2007, che è un periodo lungo», spiega Tara Stoinski, presidente e responsabile scientifico del Fossey Fund, «sarebbe giunto alla conclusione che in quest’area non ci sono casi di infanticidio. Ma i dati raccolti prima e dopo quel periodo ci rivelano invece che l’infanticidio non è un comportamento insolito».
Negli anni Settanta c’erano pochissimi gorilla, mentre le interferenze umane – come il bracconaggio o l’allevamento di bestiame – erano talmente consistenti da frammentare i gruppi e spingere i maschi solitari ad attirare le femmine lontano dai loro gruppi e a ucciderne i cuccioli per innescare l’estro. Con il calo del bracconaggio sono diminuiti anche gli infanticidi. «Adesso c’è un’alta densità di gruppi e un basso livello di interferenze», dice Stoinski, «ma gli infanticidi sono in crescita per l’aumento delle interazioni fra i gruppi. È affascinante vedere come reagiscono i gorilla».
Una delle sorprese più grandi per i dirigenti del parco e per Tara Stoinski, che sui temi del comportamento e della salvaguardia dei primati ha pubblicato un centinaio di articoli scientifici, è stata la ricomparsa a gennaio di un silverback che si riteneva morto. Cantsbee, uno degli ultimi due gorilla battezzati da Dian Fossey, era il maschio più longevo che i ricercatori stavano seguendo; dominava il Gruppo Pablo, il più numeroso di Karisoke, e secondo un’analisi terminata nel 2013 aveva avuto Dian Fossey cammina con i gorilla Coco e Parker. I due cuccioli erano stati catturati nel 1969 per uno zoo tedesco ed erano stati maltrattati. Dian li accudì fino alla guarigione, condividendo con loro persino la sua capanna, ma alla fine non riuscì a impedire che finissero in cattività.
Come minimo 28 figli: una cifra record fra i gorilla studiati. Quando lo scorso ottobre, all’età di 37 anni, il mitico gorilla è scomparso, decine di esperti di impronte hanno perlustrato invano la foresta per un mese alla ricerca del suo corpo.
Il ritorno di Cantsbee ha ribaltato molte tesi sul comportamento del maschio dominante. «Non si era mai visto un leader della sua età e posizione sociale abbandonare il gruppo e poi fare ritorno», spiega Stoinski. «E sembrava anche in gran forma!».
In assenza di Cantsbee, il figlio Gicurasi si era messo alla guida del Gruppo Pablo. Al suo rientro Cantsbee ha guidato il gruppo occasionalmente, ma senza esercitare predominio. Poi a febbraio, indebolito, si è allontanato per l’ultima volta. Il suo corpo è stato ritrovato a maggio.
Per i ricercatori di Karisoke tutto ciò che accade oggi nel Parco conferma che i gorilla di montagna possono essere molto flessibili. Ai tempi di Fossey i gruppi osservati comprendevano solo due o tre maschi: negli anni Novanta e nei primi Duemila, col declino delle interferenze umane, i gruppi si sono ingranditi e hanno accolto fino a otto silverback. Di recente si è constatato che molti gruppi si sono divisi, spesso dopo la morte di un maschio dominante, e la situazione ricorda di nuovo quella dei tempi di Fossey. «Ciò dimostra che il comportamento non prescinde dagli eventi esterni; dipende dal contesto», dice Stoinski. «Il mutamento dell’ambiente e delle circostanze trasforma anche elementi come l’organizzazione sociale». E poiché i gorilla maturano in un arco di tempo lungo vanno studiati nel lungo periodo per avere anche solo una vaga idea di quale sia la “normalità”.
SE LE ATTIVITÀ umane stanno spingendo il 60 per cento circa delle specie di primati selvatici verso una rapida estinzione, questa popolazione di grandi scimmie è in crescita. Ma i gorilla dei Virunga restano vulnerabili. «È una popolazione estremamente piccola e fragile», avverte Stoinski.
Perciò il Fossey Fund continua a monitorare gli animali e a far togliere le trappole, investendo nel contempo in programmi sociali. A Bisate, per esempio, ha creato una biblioteca e un centro informatico per le scuole e finanziato la realizzazione di un reparto maternità. Gestisce programmi di educazione ambientale che ogni anno vedono la partecipazione di 13 mila ruandani e si prefigge di aiutare la popolazione rurale a guadagnarsi da vivere.
I gorilla si stanno già spostando verso aree del parco con meno gruppi. Ma è possibile che gli esseri umani debbano comunque lasciare spazio per loro.
Il governo ha proposto la creazione di una zona cuscinetto che comporterebbe il trasferimento più a valle di persone, bestiame e campi coltivati. Sarebbe una decisione estremamente controversa, perché nel distretto di Musanze vivono 700 anime per chilometro quadrato. «Occorre fare in modo che le comunità locali comprendano il valore del Parco», dice Stoinski. In fondo l’industria turistica del paese si basa sulle escursioni nel regno dei gorilla, che nel 2015 hanno prodotto entrate per 367 milioni di dollari americani, e il 10 per cento degli introiti del Parco è destinato alle comunità locali.
Guardando una mamma gorilla che fa saltare sulle ginocchia il suo piccolo batuffolo di pelo, o una coppia di adolescenti che fa la lotta su un materassino di rampicanti, è facile dimenticare le fatiche umane che rendono possibili quelle scene gioiose. I critici si chiedono se non sia meglio usare per altre specie il denaro destinato a questi interventi di tutela così onerosi, che secondo alcuni rischiano di sconvolgere la selezione naturale favorendo la sopravvivenza di individui meno adatti.
Ma Veronica Vecellio difende a spada tratta l’opera compiuta. «Teniamo in vita questi gorilla ribaltando gli effetti dell’impatto umano», dice, «perché sono stati gli esseri umani a mettere in pericolo la loro sopravvivenza».