il venerdì, 29 settembre 2017
Le mie tre vite: bandito e riovoluzionario. Pensionato quasi. Intervista a Sante Notarnicola
BOLOGNA. «Cinquant’anni? Non ci avevo pensato». Sante Notarnicola, della banda Cavallero, sembra stupito. Ma i numeri sono numeri. Il 3 ottobre 1967 cinquecento carabinieri a Casale circondano e catturano lui e Piero Cavallero, otto giorni dopo i tre morti della tragica rapina di Milano. Mitra puntati e una domanda: «Tu chi sei?».
«Sante Notarnicola, bandito». Finisce così la prima vita di Sante e inizia quella da ergastolano.
«Io direi», precisa «quella di rivoluzionario. In carcere mi sono battuto per la mia dignità e quella degli altri compagni».
Poi c’è la terza vita, quella iniziata con la libertà provvisoria nel febbraio 1995. Bandito, poi rivoluzionario. E adesso? «Pensionato». Si capisce che non dice tutta la verità.
Già al telefono, prima dell’incontro, dice che deve consultare l’agenda. «Domani devo parlare con alcuni compagni di Torino, sabato c’è la manifestazione per riaprire un centro sociale... Facciamo lunedi. Ma
una cosa la voglio dire subito: non voglio tornare a cinquant’anni fa, non ha senso. Ho pagato il mio conto. Posso parlare delle cose di oggi: dei ragazzi che si battono contro la repressione, dei compagni dimenticati nelle galere...». Solo un’eccezione, in questo divieto di ritorno al passato: per una precisazione. «Quando mi definii “bandito“davanti ai carabinieri, non lo feci per fare il duro. Era semplicemente una dolorosa presa d’atto. Eravamo scappati da Milano, prima in tram poi in treno. Ci siamo nascosti nelle campagne, a dormire sotto gli alberi e pioveva anche. Sei, sette giorni e poi quel casello abbandonato, che comunque aveva un tetto. Eravamo riusciti anche a fare un po’ di spesa. Insomma, ci sembrava di essere in una casa, il posto giusto per tentare un bilancio, fare il punto della situazione. Fino ad allora io ero convinto di avere rapinato banche per fare la rivoluzione, per innescare la rivolta alla Fiat. C’era un piano: fare saltare i tralicci dell’alta tensione, così la fabbrica si sarebbe fermata e gli operai sarebbero rimasti senza lavoro. E così si sarebbero ribellati al sistema. E invece...».
Invece Piero Cavallero gli raccontò la verità. Parlò di appartamenti comprati, e di soldi spesi non certo perla rivoluzione. «Io gli chiesi: perché non me l’hai detto? E lui rispose: se te lo dicevamo, te ne saresti andato via. Piero cercò di convincermi: dai, adesso ci facciamo una banca poi scappiamo all’estero. Una banca? E con chi facciamo la rapina? Lui mi parlò di un compagno che abitava lì vicino, che ci avrebbe aiutato. Ma non capisci che se i carabinieri ci vedono assieme, anche lui sarà rovinato per sempre? Una notte di discussione, in cui ho capito che non ero stato un rivoluzionario comunista ma solo un bandito».
Le tre vite di Sante Notarnicola si intrecciano con le tre vite di Pietro Cavallero detto Piero, anche lui bandito, detenuto e poi in libertà. Gli incontri con i partigiani comunisti, subito dopo la guerra. La militanza nella Fgci e nel Pei. Poi la decisione di rapinare le banche. «Abbiamo sempre scelto i tempi sbagliati: forse abbiamo continuato la Resistenza, forse abbiamo anticipato le Brigate rosse, vallo a sapere». Vite che si dividono dopo la cattura e la condanna. «È in carcere» rac conta Notarnicola, «che io e Piero abbiamo fatto scelte diverse. Lui ha passato vent’anni in branda, mi sgridava perché organizzavo proteste e rivolte, mi diceva che così non sarei mai uscito dalla galera. Ma io sono orgoglioso di quegli anni, quando sono stato fra i fondatori dei “dannati della terra”. Ho visto le guardie fare pestaggi bestiali e ho gridato contro questi crimini quando ho potuto parlare, nel processo di appello. Abbiamo lottato per avere l’acqua e un gabinetto, al posto del bugliolo». La Brigate rosse, quando sequestrarono Aldo Moro, lo misero al primo posto nella lista dei detenuti politici da liberare. «Dopo le prime lotte in carcere, trovarmi a fianco di chi faceva la lotta armata è stato naturale. Certo, la politica non è mai stata il mio forte. Nel 1974, a Favignana, riuscii a far finire la protesta di un detenuto che minacciava con un coltello alla gola il giudice di sorveglianza (era il giovane Giovanni Falcone) e il ministe ro mi propose per un encomio. “Con questo – disse il direttore del carcere – potrai essere fuori fra due o tre anni”. Fra due o tre anni, gli risposi, avremo fatto la rivoluzione e avremo vinto, senza i vostri encomi».
La terza vita di Sante inizia nei sotterranei della Standa, a raccogliere cartoni come dipendente di una coop di ex detenuti. Poi c’è l’osteria Mutenye dove fino alle 4 del mattino si servono birre e politica. «Ora sono davvero in pensione ma la voglia di combattere contro l’ingiustizia non mi è passata. Ci sono ragazzi vittime di repressione pesante perché impegnati nelle lotte sociali. Ci sono ancora ancora trenta o quaranta compagni della lotta armata in galera e quasi non si conoscono i loro nomi. Renato Curcio, al momento della sconfitta, non è riuscito a tenere assieme i brigatisti. Ci sono stati i traditori, i dissociati... Doveva dire: abbiamo attaccato, abbiamo perso, adesso basta. Tutti i compagni tutti in carcere sarebbero diventati un problema politico, da risolvere politicamente». Cinque omicidi, numerosi feriti, 23 rapine... «Ci sono storie irreparabili» prosegue Sante. «E la storia della banda è fatta anche di vittime. Io credo che il pentimento debba restare intimo, non diventare merce di scambio».
Piero Cavallero (è morto nel gennaio di vent’anni fa) nella sua terza vita è stato volontario al Ser.Mi.G. di Torino, il servizio missionario di Emesto Olivero. «Con Sante – ci raccontava nel maggio 1995 – dopo le divisioni in carcere sono tornato amico. Sì, penso spesso ai morti di quelle rapine. Uccidere, per me, non è solo un reato: in me c’è il concetto di peccato. Per questo la mia autocritica è feroce. Gli altri mi possono perdonare, io non mi perdono».