La Stampa, 1 ottobre 2017
Ruspe e mattoni, nel cantiere in California dove nasce il muro promesso da Trump
Eccolo, il muro di Donald Trump. Anzi il prototipo, per dire la verità. Due buchi nella terra polverosa della California, che potrebbero diventare la promessa mantenuta più importante della presidenza, o il suo imbroglio più crudele.
I cartelli che la polizia di San Diego ha piazzato lungo le strade di questo sobborgo dai curiosi nomi italiani, Enrico Fermi Drive, Guglielmo Marconi Place, vietano il parcheggio fino al 10 novembre. Perché dal 26 settembre, alla fine di Via de la Amistad, sei compagnie hanno iniziato a costruire otto prototipi di muro, da cui
l’amministrazione sceglierà poi quello che vuole alzare lungo tutto il confine col Messico.
Le aziende sono la Caddell Construction di Montgomery, Alabama; la Fisher Sand & Gravel di Tempe, Arizona; la Texas Sterling Construction di Houston, Texas; la Yates & Sons di Philadelphia, Missouri; la Kwr di Sierra Vista, Arizona; e la Elta di Annapolis, Maryland. Quattro barriere, alte massimo 9 metri, saranno di cemento, e quattro di altri materiali, per un costo compreso tra 300.000 e 500.000 dollari l’una. Ma in realtà nessuno sa con certezza cosa verrà realizzato. Trump aveva detto che il muro sarebbe stato di mattoni, poi ha spiegato che in certi punti deve essere trasparente. Aveva promesso di isolare tutte le 1954 miglia della frontiera, ma poi ha ammesso che in certe zone esistono già 654 miglia di barriere, mentre in altre è inutile alzarle, perché le montagne da scavalcare sono troppo impervie. Aveva giurato che lo avrebbe pagato il Messico, ma per ora ci dovranno pensare i contribuenti americani, a meno che coprendolo coi pannelli solari non riesca a pagarsi da solo. Poi, appunto, c’è il problema dei soldi. Il presidente ha chiesto 1,6 miliardi di dollari al Congresso per alzare le prime 48 miglia del nuovo muro. Ha detto che l’opera costerà fra 8 e 12 miliardi di dollari, ma una stima del Mit prevede fino a 40 miliardi. Perciò, dietro ai sorrisi formali, ci sono anche parecchi repubblicani che storcono il naso, perché li considerano soldi buttati.
Nel frattempo le scavatrici stanno tracciando i primi solchi. L’accesso alla zona dei lavori è presidiato da poliziotti tutti ispanici, tranne un irlandese, secondo la collaudata regola americana che gli ultimi arrivati sono sempre i più ligi nel tutelare i privilegi faticosamente guadagnati. Ma l’agente Escobar è socievole: «Vai pure, fino a dove trovi la recinzione. Tanto non succede nulla. Siamo qui da una settimana, e non si è visto ancora nessuno a protestare. La gente è contraria all’idea del muro, più che alla realtà». Hiram Soto, attivista di Alliance San Diego, ha spiegato: «Non protestiamo perché non vale la pena. Questa è una farsa, messa in scena per consentire a Trump di dire ai suoi elettori che sta mantenendo la promessa. La verità è che il muro già esiste, dove serviva, e il resto non verrà mai costruito».
Otay Mesa è un villaggio mono uso: tutti parcheggi per autocarri, che fanno la spola tra Messico e Usa trasportando merci. C’è anche un centro per le ispezioni della polizia autostradale. Qui incontro Juan Jimenez, camionista messicano che ha appena passato la dogana: «Il muro? Boh, facciano un po’ quello che gli pare. L’importante è che non mi intralcino: io ho un permesso regolare per trasportare legname, e non voglio scocciature». Poi si ferma, ci ripensa, e aggiunge: «Anzi, lo sai cosa ti dico? Mi fa pure piacere che lo alzino. Se blocca un po’ di contrabbando e traffico di droga, ai lavoratori onesti come me fa solo un favore».
Il premio Nobel per l’Economia Vernon Smith ha vissuto l’intera vita adulta tra Arizona e California. «Qui – spiega – fanno tutti avanti e indietro da decenni, legalmente o no. Alcuni vengono la mattina dal Messico a lavorare, e tornano la sera a casa oltre il confine. Altri si fermano, mandando i soldi indietro. Finora non importava nulla a nessuno, perché erano brava gente che veniva a fare i lavori rifiutati dagli americani. La droga ha cambiato tutto. Negli Usa abbiamo proibito anche quella ricreativa, ma siamo stati incapaci di controllare la nostra domanda. E dove sta l’offerta? In Messico e America Latina. Finché noi vorremo comprare tutta questa droga, i produttori troveranno il modo di vendercela. Il traffico però ha reso violento il confine un tempo pacifico, generando il risentimento che Trump ha sfruttato. Ogni paese ha il diritto di tenere fuori gli indesiderati, ma sono pochi e andrebbero bloccati con altri sistemi. Il muro alla fine sapete chi lo pagherà davvero? I cittadini onesti da entrambe le parti della frontiera, americani e messicani, che perderanno un sacco di soldi a causa della diminuzione degli scambi, favorita anche dalla miope denuncia del trattato commerciale Nafta».
Gilberto Ocañas, avvocato texano che fa politica coi democratici, condivide il pensiero di Smith: «Gli Usa hanno 350 milioni di abitanti e un’economia da 19 trilioni di dollari: davvero l’emergenza principale sono 12 milioni di illegali ispanici, che raccolgono pomodori? È pura demagogia razzista. Qui siamo una famiglia sola: i messicani a Sud del confine chiamano quelli sopra i norteños, cioé i messicani del Nord. Texas, Arizona, California, sono le regioni che crescono di più negli Usa: il muro raggiungerà solo lo scopo di rovinare la nostra economia, e qui sono proprio i repubblicani più ricchi a non volerlo». Poi Gilberto aggiunge: «I messicani ormai non emigrano più, perché la loro economia si è ripresa e stanno bene a casa. Il vero dramma non è il muro, ma la guerra in corso tra il cartello di Sinaloa e i giovani emergenti di Jalisco, per la successione di el Chapo che sta in prigione a Manhattan. Da questo dipenderà davvero la nostra sicurezza».
Sul lato opposto del confine, a Tijuana, la gente ha altro a cui pensare. La solita povertà, violenza, speranza di una vita decedente. Mentre aspetto l’infinita fila di auto, in coda per entrare negli Usa a San Ysidro, noto due bambine che si guadagnano da vivere facendo trucchi da giocolieri tra i gas di scarico. Quale differenza c’è tra loro, che magari sognano di sfuggire alla miseria saltando il muro, e la madre di Trump, Mary Anne MacLeod, sfuggita alla miseria in Scozia imbarcandosi per New York nel 1930? Nulla, a parte l’origine anglosassone, che aveva reso lei ben accetta, e loro potenziali criminali da tenere alla larga.
Il doganiere Ramirez, insospettito perché sono entrato e uscito dal Messico lo stesso giorno, mi blocca per un’ispezione secondaria. Quando verifica che non nascondo droga nel baule, si lascia andare a due chiacchiere: «Il muro? Ci aiuterà, ma qui gli attraversamenti illegali sono già scesi dai 630.000 del 1986 a 32.000 l’anno. Non cambierà molto. Bloccherà la gente onesta che sogna una vita migliore, come i miei genitori, ma i narcos no: loro una maniera per aggirarlo la troveranno sempre. Scaveranno tunnel, alzeranno scale, passeranno dalle montagne, useranno i droni o gli aerei, aumenteranno i carichi nascosti qui nelle auto», magari anche con la complicità di qualche poliziotto. «Con tutti quei soldi, sarebbe più utile costruire un muro virtuale, basato sulla tecnologia per beccare i veri criminali». Ramirez scuote la testa, mi indica che posso andare, e va verso la prossima auto da rivoltare: «Tanto qui non finirà mai».