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 2017  ottobre 01 Domenica calendario

Anna Mazzamauro: «Per strada mi pregano: ‘Mi dà della merdaccia?’ Con Villaggio mai a cena»

Anna Mazzamauro ha nel curriculum una serie lunga e articolata di spettacoli teatrali, da Anna Magnani al Cyrano di Edmond Rostand, e poi programmi televisivi, ben 26 film, quando parla cura il suo italiano, qualche citazione, una famiglia borghese alle spalle, eppure da certe liturgie fantozziane non si sfugge: “Sì, ancora capita, mi fermano e implorano: ‘La prego mi dia della merdaccia schifosa’. Dopo averli accontentati sboccia nei loro occhi un enorme sorriso di gratitudine, è come regalargli un pezzo del ragionier Ugo…”
Dalla sua signorina Silvani non si sfugge…
Difficile, la guardo nello specchio da oltre quarant’anni e non nego mi sia pesato, a volte l’ho veramente detestata, soprattutto quando la gente mi indica come “quella che ha fatto Fantozzi”. Eh no, cavolo…
Però solo a volte…
Ovvio, sarei cretina al contrario: sa quante colleghe avrebbero voluto o sognano un personaggio come quello della Silvani? Tutte. Ma proprio tutte.
Si piace in quel ruolo?
Ho visto solo il primo Fantozzi e la sera del debutto, gli altri mai, m’imbarazzo; il cinema non è il mio campo, e non ho difficoltà ad ammetterlo: non sono un granché.
Esagerata…
No, è vero. Sono un’attrice di teatro, ho bisogno di un palco, del pubblico, degli odori delle tende, del camerino, del brivido prima di salire in scena, delle reazioni in platea; e poi l’esibizionismo dell’attore prevede l’immediatezza.
Esibizionista…
È fondamentale, vero motore della passione, e sono nata così, non ci sono diventata. (Silenzio) Quando entro in un ristorante nuovo, se non mi riconoscono, sono capace di girare le spalle e andare via.
È una battuta?
Mica tanto…
Come attrice di cinema non sarà un granché, ma la signorina Silvani è entrata nella storia…
In parte grazie a mia madre, è lei una delle maggiori fonti d’ispirazione nella creazione del personaggio: lavorava al ministero delle Finanze, e quando andava al lavoro la guardavo tra l’affascinato e lo stupito, spesso non comprendevo il suo abbigliamento.
Cosa aveva di tanto particolare?
Gli abbinamenti: magari sopra una camicetta di seta indossava un maglione sportivo, poi delle scarpe basse, mentre in borsetta ne nascondeva un paio con i tacchi, rossetto, fondotinta e pettine.
Perché?
La mattina doveva stare al ministero e adeguarsi alle altre ragazze, poi il pomeriggio raggiungeva la Segreteria del ministro e si sistemava, ma questo l’ho capito meglio da grande, da ragazzina non comprendevo e la studiavo.
I suoi l’hanno sostenuta nella carriera?
Terrorizzati. Io non sono attrice, io nasco attrice. E non esagero nel dirlo, da sempre mi sento tale, da sempre leggo testi, improvviso; da bambina pensavo pure alle locandine tanto da accorciarmi il nome, da Anna Maria ad Anna, per renderlo più semplice, più musicale.
Ma a quale età?
Il cambio del nome? A sei anni, e dopo una lunga serie di prove. Forse non è chiaro, ma in prima elementare mi hanno affibbiato un’infinita serie di sospensioni perché non seguivo la lezione, ma stavo altrove, su un palco immaginario.
Fissata…
Fuori dallo spettacolo mi sento una donna socialmente inutile, quasi improduttiva, mentre quando salgo quegli scalini tutto si trasforma, sono pure in grado di avvertire dentro di me una nota sexy.
Torniamo a lei da bambina.
Quando i miei hanno capito la portata di questa passione, mi hanno chiuso dalle suore, pensavano di vincere così quello che definivano “il demone”: ho frequentato tutte le scuole fino al terzo liceo, ho passato ogni ordine, anche le tedesche e le inglesi, so perfettamente come si muovono, pensano o agiscono. Io le conosco…
Non sembra soddisfatta…
Per carità! Ho vissuto anni di assoluta gogna, le mie giornate scandite dall’ultimo banco rivolta verso la finestra, le mie compagne erano l’infisso, il cielo e le eventuali nuvole, nessuno mi rivolgeva la parola.
Niente solidarietà dalle compagne?
Le altre bambine non potevano: per timore del “contagio” le mamme avevano imposto l’isolamento dalle figlie; e comunque le alunne vivevano con la minaccia di accompagnarmi nella solitudine del banco.
Si lamentava con i suoi genitori?
Inutile, avevano riposto in quelle maledette suore le loro speranze. Mi dovevano curare.
È ancora turbata.
Il bello è che hanno provato a contattarmi: “Buonasera, siamo liete di invitarla a un raduno di ex alunne”. Liete?
E lei?
Le ho mandate a quel paese, ma di brutto, mi sono sfogata, sono arrivata a gridare la qualunque, anche che avrei voluto fossero loro delle “ex”.
Finito il terzo liceo?
Mi sono lanciata nell’Accademia di arte drammatica di Roma, già convinta di essere a un passo dal professionismo, l’esame di ammissione doveva materializzarsi come una banale formalità, una semplice dimostrazione del mio talento.
E invece?
Dopo la prova mi si avvicina Wanda Capodaglio (celebre attrice morta nel 1980), allora nel corpo docente: ‘Cosa vuole da noi? Lei è brava, però è strana, mentre noi abbiamo bisogno di attrici da tabula-rasa’. Insomma, persone da poter costruire quasi da zero.
Chissà la delusione…
Grossa. Per fortuna poi sono finita al CUT (Centro Universitario Teatrale) de La Sapienza di Roma, e lì ho conosciuto dei fuoriclasse come Gigi Proietti e Leo de Bernardinis, con Giancarlo Cobelli tra gli insegnanti.
Gigi Proietti.
Uscivamo insieme anche la sera, in due sul suo motorino scassato, magari lo andavo a vedere quando con il suo pessimo gruppo suonava in un orrendo locale nato poco lontano dal centro di Roma. Ma non importava: aspettavo e aspettavo, alla fine il mio premio era poter ballare con lui.
E la sua carriera di attrice?
Il massimo fu quando Cobelli mi convinse ad andare a Milano per tentare un provino al Piccolo con Giorgio Strehler.
Bel colpo…
Ma quale colpo! Arrivo in città e come se fosse normale, una prassi, inizio a telefonare al teatro per ottenere un appuntamento. Niente. Insisto. Niente. Divento quasi una stalker, inutilmente. Quindi decido di andare direttamente.
L’hanno accolta?
Aspetti. Mi presento al portinaio, gli allungo una mancia, e stringo un accordo: non mi avrebbe rotto le palle. A quel punto prendo una sedia e mi accomodo al centro del cortile in attesa di venir ricevuta.
Quanto è rimasta seduta?
Circa quindici giorni e con un reale orario da ufficio milanese, con tanto di pausa pranzo.
Obiettivo raggiunto?
Un giorno passa un signore, mi supera, si ferma, torna indietro, mi guarda: ‘Cosa fa qua? Cosa sta aspettando?’. E io: ‘Si faccia gli affari suoi, vada a lavorare e non mi rompa i coglioni’. Sa chi era quel signore? Paolo Grassi (fondatore con Strehler del Piccolo).
L’uomo giusto.
Con un impeto di generosità mi manda il suo assistente, finalmente il provino, ma senza esito: ‘Lei è molto brava, però non va bene per noi’.
Comunque lei ha un certo caratterino…
Grazie al quale ho ottenuto il ruolo della signorina Silvani.
Arrivato con un “vaffa” rivolto a Fellini.
Per il film Roma mi chiese di doppiare una donna anziana in un modo, secondo me, sbagliato. Non ero convinta. Alla fine della giornata, la sentenza: ‘Senta signorina Mezzamauro diciamo che lei non è capace d’interpretare questo ruolo’. E io: ‘Senta dottor Felloni, mi hanno detto che nella sua famiglia c’è un’attrice, non brava quanto me, un po’ avanti con gli anni. Sicuramente sarà più adatta per questo ruolo’.
Anche Fellini sistemato…
Però devo molto al suo aiuto regista, Maurizio Mein: è lui il colpevole, è lui ad essersi ricordato di me quando cercavano dei mostri parlanti per Fantozzi.
Luciano Salce come regista…
Un grandissimo troppo poco ricordato, un uomo che amava veramente molto le ragazze, e non solo le ragazze, anche le loro madri, ma esclusa questa manifesta passione, era una persona di un livello culturale non comune, in grado di mettere a proprio agio pure una come me. E poi i duetti con Paolo…
Com’erano?
Anche Villaggio aveva una certa predisposizione per le donne. Una marcata predisposizione. Ma detto questo, per vent’anni non ho mai avuto la sensazione di non essere rispettata, con loro eri protetta da un professionismo assoluto, da una capacità vera di concepire la commedia come un’arte corale.
Un esempio?
Alla fine del ciak Villaggio si accertava se ero stata inquadrata a dovere, se quando pronunciavo la battuta avevo ottenuto il giusto primo piano. Questo vuol dire guardare oltre. Quando giravamo ero così felice da sopportare la sveglia alle quattro del mattino.
Però non eravate amici.
Una volta mi disse: ‘Io esco solo con i ricchi e i famosi’.
Mai una cena?
Troppo tirchio, non pagava mai niente a nessuno. Una volta lo incontro all’aeroporto di Venezia, finge di non riconoscermi, ci resto malissimo, lui capisce di aver esagerato: ‘Dai, andiamo a pranzo all’Harry’s bar’. Va bene. Ci sediamo, Ordiniamo. Al momento del conto, il bel gesto: ‘Non ti preoccupare, ci penso io’.
Un signore…
Poco dopo ho scoperto il trucco: la ricevuta l’ha messa a carico della produzione cinemetografica.
Per lui non era né ricca, né famosa…
Quando lo incontravo gli ultimi tempi, per prima cosa gli sventolavo il libretto degli assegni: ‘Oh, ce l’ho pure io!’ Un pomeriggio, nella trasmissione di Barbara D’Urso, festeggiavamo i 40 anni di Fantozzi e lui se ne esce, con me presente: ‘Abbiamo preso la Mazzamauro perché avevamo bisogno di un cesso’. Io non mollo: ‘Un cesso sul quale avresti posato volentieri il tuo culo’.
Quella per le donne non è una passione solo di Villaggio e Salce…
No, ma almeno loro avevano un loro codice. In troppi altri casi l’unico parametro era, ed è, le tette ben esposte, il culo alto, il sorrisetto e la disponibilità.
Si ricorda la sensazione di quando ha studiato il copione di “Fantozzi”.
Massacrata di risate, un continuo. Mai più letta una sceneggiatura del genere, scritta da Paolo in maniera divina.
Però il cinema non lo sente suo…
Infatti la Silvani è un’esasperazione teatrale, un grottesco inconsapevole; mentre non amo il metodo con il quale si arriva al film.
Quale metodo?
Si comincia quasi sempre dalla fine: ‘Piangi’. Perché? ‘Tu piangi’. Poi si affronta la parte centrale della sceneggiatura, alla fine tocca all’inizio; in questo modo il mio cervello si sgretola, non ricordo più niente, vado sgomenta: pronuncio le battute ma non ho l’immediatezza.
I suoi colleghi…
Lavorano solo per guadagnare molto, e anche io mi sono cimentata con questo obiettivo. E poi per il gusto della riconoscibilità.
Senza appello.
Quasi tutti sono disposti a picchiarti anche solo per una battuta in più.
Quindi le è capitato…
Una volta e non troppo tempo fa, sono stata presa al collo e strattonata da un comico che io definisco barzellettiere, e solo perché mi sono involontariamente sovrapposta a lui.
Gli altri l’hanno difesa?
Se ne sono accorti quando mi sono accasciata a terra semi-svenuta e dopo aver visto le riprese.
Lo ha più rivisto?
L’ultimo giorno di riprese è venuto da me: ‘Tranquilla, non ce l’ho con te. Ma se mi rompi le palle…’
Ha girato pure un cinepanettone?
Uno? Veramente a Natale esce il secondo (il seguito di Poveri ma ricchi di Fausto Brizzi). Ma restiamo sempre al concetto di prima: questione di soldi, non di passione.
Così il cinema, così la televisione…
Forse la tv conta di più. Se non vado ogni tanto, la gente per strada mi ferma: ‘Che fine ha fatto? Lavora ancora… sa non la vedo più in televisione’. Io sistematicamente mi incavolo.
Il teatro resta dietro.
Dove il punto di arrivo è l’applauso finale. E ancora oggi prima di entrare in scena vivo attimi di panico, l’unico aspetto dove sono migliorata è la dominazione dei timori, evitare o plasmare certe liturgie a seconda del nostro carattere.
Dove ha plasmato?
Ho vietato al mio direttore di scena di chiamare la “mezz’ora al sipario”; tutto deve partire dal “manca un’ora”, in questo modo ho il tempo giusto per prepararmi, per sedermi davanti allo specchio, giocarci, provare delle smorfie, la voce, il trucco. Ripassare le battute. Convogliare la paura in adrenalina. L’attesa in desiderio. L’applauso in gioia…
(E magari tornare bambina, quando invece dello specchio, aveva davanti a sé solo una finestra, le nuvole, e un sogno…)