La Lettura, 1 ottobre 2017
I film nascono dai documentari. Intervista a Leonardo Di Costanzo
«Come diceva un mio amico, le retrospettive sono i chiodi delle bare». Leonardo Di Costanzo commenta così, con tono divertito, la retrospettiva a lui dedicata dal festival Visioni dal Mondo organizzato a Milano da Unicredit Pavilion e dalla società di produzione Frankie Show Biz (5-8 ottobre). Ospite d’onore, riceverà anche il premio Visioni dal Mondo Cinema della Realtà. Nato a Ischia nel 1958, nel 1998 firma la regia del documentario Prove di stato, cui seguono A scuola, Odessa e Cadenza d’inganno. Il passaggio al cinema di fiction avviene nel 2012 con L’intervallo, visto al Festival di Venezia, e continua ora con L’intrusa, presentato a Cannes e uscito nelle sale il 28 settembre. Con il primo Di Costanzo ha vinto un David di Donatello come miglior regista esordiente, come se l’approdo alla finzione fosse un nuovo inizio per la sua carriera («Mi metterò a fare cartoni animati, così cambio di nuovo», ride). Di Costanzo sarà anche protagonista della masterclass Dal film documentario al cinema del reale in programma domenica 8. Una distinzione, quella tra cinema documentario e cinema di finzione, solo apparentemente facile, che interessa la «settima arte» fin dai tempi dell’opposizione Lumière/Méliès.
«Per me – spiega Di Costanzo – il cinema del reale rientra nella finzione, è un copione scritto, con una storia e personaggi inventati anche se ispirati a fatti e persone esistenti. Il documentario invece è un’osservazione e un’organizzazione drammaturgica di ciò che esiste nella realtà. Da una parte si scrive, dall’altra si osserva».
I due poli sono in contrapposizione o ci sono anche delle sfumature?
«Sono entrambi cinema. Per me però lo spettatore, nei primi dieci minuti di visione, deve capire che tipo di rapporto avere con quello che vede: è accaduto davvero o è messo in scena? Con tutto quello che poi ci arriva oggi da internet, sapere se ciò che vediamo è vero o falso è il primo problema. Per capire cosa dobbiamo aspettarci. C’è una differenza, e la decide più lo spettatore che chi fa il film. Certo, tra questi due poli ci sono delle vie di mezzo: il documentario può essere più o meno “organizzato”, e questo accade da sempre...».
Oggi c’è anche il «mockumentary», il falso documentario...
«Sì, certo, c’è anche chi gioca su questa ambiguità... Per quel che mi riguarda, il documentario non mi permetteva più di raccontare quel che volevo. Lo sentivo come un limite. Adesso quindi scrivo: prendo certo spunto anche da storie che ascolto nella realtà, ma è finzione».
Anche nella finzione, però, c’è un modo per essere più «realistici», che magari lei ha rubato al documentario?
«Certo. In primo luogo lavoro con attori non professionisti, in parte come nel neorealismo. I miei attori provengono dal quartiere, ambiente, mondo che narro. C’è così una sorta di vicinanza tra ruolo interpretato e persona ma, questo è importante, non interpretano mai se stessi».
Ne «L’intervallo» lei usa uno stile visivo spoglio, come se stessimo guardando «in diretta» quello che accade.
«È legato al tipo di vicende narrate: non credo debbano avere una carica drammaturgica pesante. I movimenti narrativi dei personaggi sono espressi a bassa intensità, più interna, meno visibile, senza picchi drammatici. Non è un caso che io ambienti tutto in uno spazio limitato, e anche in un tempo limitato: come se la troupe arrivasse lì in quel momento. Più che al documentario mi ispiro al teatro. Per come lavoro con gli attori, e poi perché c’è unità di tempo e spazio, come in scena. L’altrove che non si vede nel film è come un “oltre le quinte”».
Documentario e finzione possono e vogliono arrivare al vero...
«Più che al vero, al verosimile. Siccome la realtà può essere assolutamente straordinaria, il documentario ha paradossalmente meno il problema della credibilità: abbiamo detto allo spettatore che tutto è successo davvero, e lui ci crede. Nella finzione certe cose straordinarie devi tagliarle altrimenti non ci crede nessuno».
La realtà può superare la fantasia, la fantasia non può superare la realtà. E il documentario oggi spesso indaga solo cose straordinarie, come accade anche in tv con i «docureality» e le loro situazioni estreme. Come si pone nei loro confronti?
«È una deriva perversa del documentario. Si raccontano situazioni al limite che soddisfano una certa fantasia malata dello spettatore. Da fruitore e regista ho il rifiuto totale di questa tendenza, spesso è davvero irrispettosa nei confronti delle persone, strumentalizzate».
Lei lavora soprattutto sulla realtà di Napoli, un set naturale tanto «neorealista» quanto «melodrammatico». Che rapporto ha con questa città protagonista di tanto cinema e tv?
«L’idea è sempre ridurre la spettacolarità. Non mi interessa ciò che la rende così particolare, ma i drammi che potrebbero accadere ovunque. Vero, poi ci stanno i napoletani che sono degli ottimi attori, ma cerco di non farmi strumentalizzare da questa capacità. Perché il rischio è il compiacimento. Quindi tendo a sottrarre».
Un’operazione diversa rispetto alla serie «Gomorra», che è quasi iperrealistica.
«Gomorra di Matteo Garrone è un grande film, la serie tv ha uno stile in cui non mi riconosco».
È uscito nelle sale «L’intrusa»: in un centro ricreativo che cerca di sottrarre i bambini alla malavita, arriva una donna con due figli, moglie di un camorrista. È vista come un’estranea e come un pericolo dalle altre mamme. Solo la fondatrice del centro, Giovanna, prende le sue difese. Cosa racconta stavolta?
«È un film sul mondo del volontariato, non sulla camorra. Il volontariato esiste in tutte le periferie e non solo quelle delle grandi città. Il centro del film sono questi eroi della contemporaneità che, pur occupando uno spazio importante nella società, sono poco raccontati. Sono persone che stanno sul margine, a contatto con il bisogno, con quel mondo in cui il bene e il male, il permesso e l’interdetto non sono facili da dividere. Sono “sperimentatori di umanità”, perché sono costretti a negoziare con l’altro da sé. Per noi che stiamo al centro della società è facile dire chi è buono e chi è cattivo. Forse però dovremmo interrogarci come questi personaggi. La loro attenzione all’altro e la loro non rigidità nel giudizio ci farebbero bene».