la Repubblica, 30 settembre 2017
E lo chiamavano Nobel da San Suu Kyi a Dylan il premio in crisi d’identità
C’era una volta il Nobel. Atteso, amato, acclamato il premio più famoso del mondo era una consacrazione che ogni studioso, intellettuale, uomo politico ad un certo punto della sua carriera sognava. Per i pochi che, ogni anno, venivano svegliati dalla telefonata – che arriva sempre di prima mattina – da Stoccolma (o da Oslo, nel caso di quello per la Pace) c’era una certezza: la vita, da quel momento in avanti, non sarebbe più stata la stessa. Non solo per i soldi – al vincitore di ogni categoria quest’anno andranno circa 940mila euro, da dividere nel caso a vincere siano più persone – ma per la fama e la capacità di influenza che dal Nobel derivano.
C’era una volta, appunto: perché se l’edizione 2017 dei Premi che si apre lunedì con l’assegnazione del premio per la Medicina ha una caratteristica è proprio quella di dover riscattare la propria credibilità. Minata, come mai prima d’ora, dagli scandali e dalle polemiche che negli ultimi mesi hanno circondato i premi voluti (e finanziati) nel 1901 dall’inventore della dinamite, Alfred Nobel.
A inaugurare l’annus horribilis dei Nobel era stata, nel 2016, l’assegnazione di quello per la Letteratura che, insieme a quello per la Pace, è il più atteso. La scelta di assegnare il premio a Bob Dylan era stata contestata non solo dall’establishment del mondo letterario, ma dallo stesso cantautore americano. Dylan non solo aveva snobbato la chiamata dei vertici della Reale Accademia di Stoccolma, ma si era anche rifiutato di presenziare alla cerimonia di premiazione, mandando in sua vece la collega Patti Smith. Quest’anno i bookmaker si aspettano un ritorno del Premio alla sua veste più tradizionale, magari con una vittoria dei sempre favoriti Don DeLillo, Adonis o Haruki Murakami.
Per l’Italia in realtà la polemica era iniziata qualche giorno prima quando il riconoscimento per la Chimica era andato a Jean-Pierre Sauvage, Sir J. Fraser Stoddart e Bernard L. Feringa per la loro progettazione e produzione di macchine molecolari ma non a Vincenzo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna, che con i colleghi aveva pubblicato alcuni degli studi premiati. Ma amarezza e discussioni durarono pochi giorni. Con l’avanzare della settimana, come durante ogni edizione, tutta l’attenzione si concentrò sul Nobel per la Pace: e quando a vincere fu, come da previsione, il presidente colombiano Jose Manuel Santos per gli sforzi nel processo di riconciliazione con le Farc tutto sembrò tornare normale. Mai valutazione fu più errata: poco dopo l’annuncio, un referendum bloccò la svolta di Santos e mise in seria discussione la bontà della scelta. Non bastò un secondo voto, qualche mese dopo, a restituire al Nobel la dignità perduta.
A luglio la morte di Liu Xiabao, premio Nobel per la Pace cinese spirato totale in solitudine, abbandonato da quelli che erano stati i suoi sostenitori dopo le ripercussioni minacciate da Pechino, fece arrivare su Oslo un’ondata di polemiche. Uno tsunami, si disse allora. In realtà nulla rispetto a quello che sta accadendo in queste settimane: più di 400mila persone in tutto il mondo hanno firmato una petizione che chiede il ritiro del Nobel assegnato nel 1991 ad Aung San Suu Kyi, la lady birmana finita nella polvere per il silenzio sui massacri e le persecuzioni contro la minoranza musulmana rohingya nel suo Paese, tanto da dover incassare le durissime critiche di colleghi Nobel del calibro di Mohammed Yunus, Desmond Tutu e Malala, tra gli altri. L’appannarsi della stella di Suu Kyi, a lungo una delle più luminose nel firmamento del Nobel, mette in grave imbarazzo i saggi chiamati alla scelta finale: e mai come quest’anno li obbliga a non sbagliare.