Il Resto del Carlino, 2 ottobre 2017
Toscanini, la bacchetta inflessibile. Musicista e patriota che sfidò il Duce
Un fisico che era anche violinista dilettante nel 1937 gli scrisse: «Sento il dovere di dirle quanto la ammiri e la veneri. Lei non è soltanto l’impareggiabile esempio della letteratura musicale universale. Anche nella lotta contro i criminali fascisti si è dimostrato uomo della massima dignità. Il fatto che lei esista nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è costantemente costretti a subire». Quel fisico era Albert Einstein, il destinatario della lettera Arturo Toscanini. E in quelle righe è racchiusa la parabola di un artista audace e politicamente impegnato, capace – come osservò il direttore d’orchestra Daniel Barenboim – di mantenere fino alla fine slancio e temperamento senza arretrare di un centimetro. Anche a costo di essere preso a sberle.
Lo schiaffo che Toscanini incassò dagli squadristi a Bologna il 14 maggio del ’31 per essersi rifiutato di dirigere al Teatro Comunale gli inni nazionali (“Giovinezza” e Marcia Reale) è rimasto senza paternità certa. Secondo Montanelli il colpevole fu Leo Longanesi, che poi definì il maestro «un uomo schifoso». Di certo c’è che l’aggressione rimase il simbolo del rapporto tormentato fra i compositori più geniali del primo Novecento e i regimi totalitari. Toscanini riparò in America come Stravinsky, Schoenberg e Kurt Weill. Si rintanò a New York nel periodo fascista e da lì si impegnò a ottenere visti per tanti colleghi in fuga. NEL ’36 diresse gratis a Tel Aviv il concerto inaugurale della Palestine Symphony Orchestra, cosa che appunto impressionò Einstein. E per fare definitivamente imbestialire il Duce nel ’38 definì le leggi razziali «roba da Medioevo». Era rapido come i suoi tempi di esecuzione, impulsivo al punto che in alcuni dischi lo si sente cantare sopra l’orchestra, tagliente come le rasoiate delle sue mani. Di Strauss, che aveva accettato la sponsorizzazione nazista, disse: «Davanti al compositore mi tolgo il cappello. Davanti all’uomo me lo rimetto». La regista d’opera Margarete Wallmann non si riprese mai dalla meraviglia di averlo conosciuto. Per lei quando Toscanini dirigeva era come il destino che colpisce infallibile, inesorabile. Era sbalordita dal suo senso innato del ritmo, dalla memoria prodigiosa: «Opere o concerti, dirigeva senza partitura». La partitura però era lì e con quella lo facevano arrabbiare: «Non sapete leggere? – gridava agli orchestrali – Qui c’è scritto “con amore” e voi cosa state facendo? State suonando come uomini sposati».
Quelli della Nbc Orchestra ricordano ancora la minaccia: «Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi». Un uomo di carattere ha spesso un brutto carattere: «Suonare pressappoco è orribile. Tanto vale suonare male». Il critico musicale Mario Rinaldi ricordava che il maestro teneva talmente tanto alla perfezione che una volta finì per darsi uno schiaffo. Il collega Carlo Maria Giulini ne parlava come di un servitore della musica: «È stato lui a insegnarci a non servirsi della musica per interessi personali. È stato uno dei tre artisti che hanno cambiato radicalmente la storia dell’interpretazione. Gli altri due sono Liszt e Paganini».
Arturo Toscanini, cresciuto nell’Italietta della piccola borghesia ottocentesca, impose il buio in sala, ma ha raccontato al mondo l’altra storia d’Italia: luminosa, vincente, patria della musica e della libertà. Era nato a Parma il 25 marzo 1867. Il padre Claudio aveva combattuto con Garibaldi per l’Italia unita, faceva il sarto e teneva nascosto un cuore ribelle. La madre Paolina oliava i cardini dell’ordine e della semplicità. A 4 anni entra per la prima volta a teatro e Verdi risveglia un talento innato. A 9 viene ammesso al Conservatorio di Parma: studia il violoncello solo per fare felice il suo professore ma a interessarlo è tutta la musica.
La sua folgorante carriera internazionale comincia con una scadente tournée in Brasile dove i cantanti chiedono che il direttore venga sostituito. «Se volete provo io» si offre lui che conosce a memoria “La Favorita” di Donizetti. Sale sul podio senza frac, la situazioni di lì in poi sarà sempre sotto controllo. È esigente fino all’esasperazione. Dal Regio di Torino passa alla Scala, in America solleva il livello del Metropolitan. Organizza concerti di beneficenza per le vittime del terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908, nel 1915 è sul fronte a incitare i soldati italiani mentre di bandiere italiane farà tappezzare la Carnegie Hall per tenere alto il nome del suo Paese. «Lavoro, lavoro – scrive alla moglie Carla dall’America –. È l’unico modo per rendere possibile la vita dimenticando le sue miserie».
Su “Life” viene pubblicata una sua lettera a Franklin Delano Roosevelt: «Sono un vecchio artista e fui tra i primi a denunciare il fascismo al mondo. Credo di poter fungere da interprete dell’anima del popolo italiano, la cui voce è stata soffocata per più di vent’anni ma che, grazie a Dio, proprio ora sta gridando per la pace e la libertà nelle piazze sfidando persino la legge marziale». Il 25 marzo 1956 si dimette dalla Nbc Orchestra e depone la bacchetta. Poco prima di compiere i 90 anni, il mattino del 16 gennaio 1957, muore facendo piangere tutta l’America. Il suo leggendario temperamento riceve un tributo postumo nel 1962. È un cartone animato con Tom e Jerry che stavolta si rincorrono al Metropolitan Opera House: il direttore spazientito rompe una serie di strumenti sulla testa del gatto.