30 settembre 2017
APPUNTI PER GAZZETTA - LA CATALOGNA AL VOTOREPUBBLICA.ITBARCELLONA - Sale la tensione in Catalogna alla vigilia del giorno stabilito per il voto sull’indipendenza che il governo centrale di Madrid sta cercando di bloccare in tutti i modi
APPUNTI PER GAZZETTA - LA CATALOGNA AL VOTO
REPUBBLICA.IT
BARCELLONA - Sale la tensione in Catalogna alla vigilia del giorno stabilito per il voto sull’indipendenza che il governo centrale di Madrid sta cercando di bloccare in tutti i modi. Un gruppo di agenti della Guardia Civil, il corpo di gendarmeria spagnolo, è entrato nel Centro delle Telecomunicazioni (Ctti) del governo catalano per impedire la raccolta e l’elaborazione dei dati sulla consultazione. Bloccate tutte le attività informatiche connesse al voto di domenica. Esulta il portavoce del governo spagnolo Inigo Mendez de Vigo: "È stata colpita l’organizzazione del referendum illegale". Ma il portavoce della Generalitat Jordi Turull fa sapere che domenica si "voterà lo stesso" perché "il blocco non compromette la logistica della votazione".
La giornata era iniziata con un primo attacco violento collegato alla votazione: nella notte a Manlleu, in uno dei seggi occupati dagli elettori, quattro persone sono rimaste lievemente ferite dopo che un uomo ha sparato con una carabina ad aria compressa. L’autore non è stato ancora identificato, ma tre dei feriti sono membri del Comitato locale di Difesa del referendum.
La vicenda si è verificata mentre a Barcellona il fronte secessionista concludeva la campagna per il voto con un grande comizio cui hanno partecipato oltre 80mila persone. Referendum Catalogna: grande show per la chiusura della campagna secessionista Navigazione per la galleria fotografica 1 di 20 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow
Ieri la giornata non era stata delle più semplici, continui i botta e risposta tra Madrid e la Generalitat catalana. Alla minaccia dello Stato spagnolo di impedire la votazione, la Catalogna aveva risposto lanciando una sfida: "Se bloccate i seggi, troveremo alternative per votare". Per questo i manifestanti pro referendum, per difendere i luoghi del voto, si sono organizzati per occupare scuole e uffici, come l’istituto Collaso i Gil di Barcellona, nella Ciutat Vella, tra i primi ad essere conquistati. Qui, al grido di "Votarem" (voteremo), genitori, professori e attivisti erano entrati nella struttura scavalcando il cancello con una scala, mentre una catena umana portava sino all’interno della scuola viveri e beni di prima necessità per passare le notti.
Referendum Catalogna: attivisti occupano i seggi Navigazione per la galleria fotografica 1 di 14 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow
Dalle prime ore del mattino i Mossos d’Esquadra stanno passando nei diversi seggi occupati per invitare gli elettori a uscire dagli edifici. Nessuna intimidazione o atto di forza, proprio come richiesto dal comandante Josep Lluis Trapero che, con una nota interna, ha diffuso l’ordine di "non usare violanza".
Catalogna, da Puigdemont a Junqueras: i protagonisti pro e contro il referendum Navigazione per la galleria fotografica 1 di 6 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow
· SCONTRO SUI SEGGI E SUL WEB
Sul campo, ma non solo. La battaglia Madrid la sta giocando anche e soprattutto online con la chiusura delle app utili alla consultazione: prima quella per individuare i seggi all’ultimo minuto, poi quella per il voto elettronico. Mossa con cui il governo Rajoy ha eliminato, dal mazzo delle alternative possibili, la più concreta delle carte che la Catalogna poteva giocarsi: la consultazione online. Una situazione che il fondatore di WIkileaks Julian Assange ha definito "la prima guerra mondiale su Internet".
SPECIALE / SUPER8 LE DUE ANIME DELLA CATALOGNA
Ancora chiuso anche lo spazio aereo sopra la capitale e così sarà sino a lunedì. Intato, via terra, sono arrivati a Barcellona circa quattromila agricoltori con i loro trattori che domani si occuperanno di impedire l’intervento delle forze di polizia creando una barriera intorno a luoghi del voto. Condividi
· MANIFESTAZIONI SUI DUE FRONTI
Barcellona intanto è spaccata in due: da un lato sfilano le bandiere della Catalogna, dall’altra quella spagnola. Mentre centinaia di persone hanno manifestano in difesa dell’unità della Spagna davanti il palazzo del governo locale, altre migliaia hanno marciato a sostegno dell’autonomia catalana.
Sempre la Fondazione in Difesa della Nazione Spagnola (Denaes) ha riunito migliaia di madrileni nella piazza centrale di Cibeles, armati di bandiere spagnole. Cori e insulti si sono levati contro il primo ministro Mariano Rajoy - ritenuto responsabile di aver fomentato l’indipendentismo catalano con le sue politiche - e il presidente della regione catalana Carles Puigdemont.
Referendum Catalogna, bandiere spagnole e slogan: la protesta dei contrari al voto Navigazione per la galleria fotografica 1 di 12 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow Madrid, in migliaia in piazza contro il referendum catalano Navigazione per la galleria fotografica 1 di 21 Immagine Precedente Immagine Successiva Slideshow
Marcia indietro. Sul tema ’day after’ - cosa accadra il giorno dopo la consultazione - il presidente catalano Carles Puigdemont, intervistato dal quotidiano in lingua catalana Ara, pare aver fatto marcia indietro rispetto alle parole incendiarie delle settimane scorse. Nell’intervista ha dichiarato che se anche al referendum dovessero vincere i ’Si’, la Catalogna non dichiarerebbe unilateralmente la sua indipendenza. Puigdemont ha sottolineato che "tutti capiscono che le grandi decisioni devono essere consensuali" e che "qualunque cosa accada la Catalogna avrà guadagnato il diritto a essere rispettata: non dico a essere riconosciuta come stato indipendente, ma il diritto a essere ascoltati e rispettati".
In Diretta 18:03 - 30 Set Guardia Civil denuncia cronista per ’terrorismo’ L’Unione della Guardia Civil spagnola ha denunciato alla procura di Madrid un giornalista della tv pubblica catalana Tv3 accusandolo di "terrorismo". Durante la grande manifestazione di protesta a Barcellona contro il blitz degli agenti spagnoli contro le sedi del governo catalano, il cronista era salito sul tetto di un’auto della Guardia Civil immobilizzata dai manifestanti per commentare gli avvenimenti.
PEZZI DI STAMATTINA
CORRIERE DELLA SERA
DAL NOSTRO INVIATO
BARCELLONA Si farà? Non si farà? Il referendum indipendentista sta trasformando l’intera Catalogna in una gigantesca sfida a guardie e ladri. Non fosse una cosa seria sembrerebbe un film di Totò, ma forse è così che si devono fare le rivoluzioni in una democrazia.
Ad ogni mossa del governo di Madrid, i secessionisti rispondono con un dribbling furbo per ridurre i rischi legali ed evitare situazioni violente. Il vicepresidente catalano Oriol Junqueras sfoggia sicurezza con il Corriere . «Il referendum si farà, almeno noi ce la metteremo tutta per permettere ai cittadini di esprimersi. E vedrete, siamo organizzati per riuscirci».
Finora sembrerebbe poter aver ragione. Madrid aveva cantato vittoria pochi giorni fa quando la polizia aveva sequestrato quasi 10 milioni di schede elettorali, i software per la gestione dei nomi degli aventi diritto al voto e congelato i conti per impedire l’acquisto delle urne o la stampa di nuove schede. Invece, ieri, almeno una delle urne illegali è comparsa, come un’attrice famosa, in conferenza stampa con riflettori e flash addosso. È di plastica opaca con coperchio nero, sigilli rossi e il simbolo della Generalitat su una facciata, segno che è stata costruita su commissione e non può essere sostituita con una scatola comprata dal ferramenta. Il costo dell’ordine? Tra i 20 e i 30 mila euro secondo i prezzi indicati sul web della ditta cinese che l’avrebbe prodotta. Dove sono nascoste le 6.200 urne necessarie per ciascuna sezione elettorale? La polizia le troverà?
Fare campagna elettorale è fuorilegge, ma ieri notte migliaia di persone hanno partecipato in Plaça de España alla festa di chiusura della campagna che non avrebbe dovuto esserci. Di esempi del genere ce ne sono a decine. Promuovere la partecipazione al voto è vietato, ma 400 trattori hanno bloccato il traffico di Barcellona inneggiando al voto per poi «assediare» l’ufficio del prefetto Enric Millo.
La polizia ha avvertito i presidi delle scuole che a concedere gli istituti come seggi rischiano multe (personali) di 60 0mila euro. Il governo catalano allora ha chiesto le aule per «attività ricreative», così dalla fine delle lezioni di ieri, fino alla mattina di domenica quando è annunciata l’apertura dei seggi, sono improvvisamente fioriti laboratori creativi, lezioni di cucito, canto popolare, mosaico bizantino. Attività no stop per quasi 40 ore di seguito. Sacco a pelo e paella portata da casa inclusa.
Per porre i sigilli come gli ordinano i giudici, ora gli agenti dovrebbero trascinare fuori ad uno ad uno gli occupanti. Ieri sera alcuni Mossos si sono affacciati alle scuole e sono tornati in commissariato a riferire. «Insisto, non ci sarà referendum il primo ottobre», ha detto il portavoce del governo di Madrid Iñigo Mendez de Vigo. Il capo dei Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, Josep Lluis Trapero, ha ordinato in una circolare moderazione di fronte a forme di resistenza passiva. Gli agenti dovranno però identificare chi è ai seggi, farli uscire e requisire il materiale. «Nessun problema — dice però il vicepresidente catalano Junqueras —. Se verranno sequestrate delle urne si potrà continuare a votare». Come? «Ci sono molti modi, abbiamo avuto il tempo per pensarci».
Andrea NicastroSERGIO ROMANO
Vi sono ormai da parecchi anni regioni che dopo avere lungamente vissuto all’interno di un grande Stato vorrebbero separarsi dalla casa madre. A un primo sguardo sembra che il problema possa essere affrontato e risolto con le regole wilsoniane dell’autodeterminazione dei popoli. Se esiste una frontiera geografica e linguistica, come nel caso della Catalogna e della Scozia, perché un referendum non dovrebbe essere la migliore delle soluzioni possibili?
La separazione fra ciò che appartiene agli uni e ciò che appartiene agli altri è quasi sempre difficile, se non impossibile. Nella regione che vuole divorziare esistono opere di interesse comune che sono state realizzate con l’indispensabile contributo dell’intera comunità nazionale. Esistono nuclei familiari che hanno messo radici su entrambi i versanti della frontiera e si considerano binazionali. Il primato della regione uscente in alcuni campi (e i vantaggi che ne derivano) sono quasi sempre il risultato di un giudizio comparativo con i valori delle altre regioni appartenenti allo stesso Stato. Quali sarebbero in un diverso contesto, per esempio, le carte vincenti della Catalogna indipendente?
Se teniamo conto di queste considerazioni ogni referendum in queste materie, soprattutto in un Paese dove la magistratura si è già pronunciata contro la separazione, sarebbe equo e valido soltanto se al voto partecipassero tutti i cittadini dello Stato. Quando il divorzio concerne la vita degli spagnoli non meno di quanto concerna i catalani, non sarebbe giusto negare ai primi il diritto di essere interpellati.
Le stesse considerazioni valgono per Scozia e Inghilterra. Dalla morte della Grande Elisabetta, quando i due troni furono occupati da una stessa famiglia reale, gli scozzesi e gli inglesi hanno lavorato insieme alla costruzione di una nuova creatura, l’Impero britannico, che si è lasciato alle spalle, dopo la sua scomparsa, uno straordinario patrimonio di memorie e istituzioni comuni.
Possiamo applicare le stesse considerazioni al referendum degli scorsi giorni nel Kurdistan iracheno? I curdi hanno presenze importanti in quattro Stati medio-orientali — Iran, Iraq, Siria, Turchia — e la loro partecipazione militare alla guerra siriana ha confermato l’esistenza di una orgogliosa identità nazionale, distinta da quella degli altri popoli che vivono nella regione. Non è tutto. Quello che sta accadendo nel Medio Oriente è il risultato di una crisi che investe quasi tutti gli Stati arabi nati dalla morte dell’Impero Ottomano e che avrà per effetto, probabilmente, la modifica di parecchie frontiere. Non è sorprendente che, in questa prospettiva, i curdi abbiano deciso di chiedere nuovamente la creazione di una grande casa comune per tutte le famiglie separate del loro popolo. Ma anche in questo caso vi sono protagonisti della vita politica internazionale che hanno il diritto di formulare riserve e prospettare pericoli. In una regione dove il ricorso alle armi è sempre più frequente, la creazione di uno Stato curdo darebbe probabilmente il colpo di grazia a ciò che ancora sopravvive del vecchio ordine e avrebbe per effetto nuove guerre.
I curdi hanno le loro ragioni, ma la stabilità è un valore comune che merita di essere difeso e tutelato.
Esiste un altro caso in cui un problema nazionale può minacciare gli equilibri e i buoni rapporti di due Paesi. Fra la Repubblica d’Irlanda, sovrana dal 1937, e l’Irlanda del Nord (l’Ulster britannico) esiste una frontiera per cui è stato combattuto, dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, un sanguinoso conflitto civile. La guerra è finita quando gli inglesi, pur continuando a conservare la sovranità sull’Ulster, hanno permesso a tutti gli abitanti della regione contesa di scegliere liberamente la propria identità politica e religiosa. Quell’accordo, firmato tra il Regno Unito e la Repubblica d’Irlanda nel Venerdì Santo del 1998, fu reso possibile dalla comune appartenenza dei due Paesi a istituzioni europee che stavano creando una nuova identità. Brexit ha provocato la rinascita della vecchia frontiera e quella che il negoziatore della Ue, Michel Barnier, ha definito una delle questioni più preoccupanti del momento. È l’ennesima dimostrazione di quanto, nelle grandi crisi territoriali, sia quasi sempre più utile unire che dividere.
SERGIO ROMANO
PARLA IL PREFETTO MILLO
DAL NOSTRO INVIATO
BARCELLONA «In termini legali la questione è semplice: il referendum è sospeso per l’ipotesi che sia anti costituzionale e, quindi, per il momento non si può fare. Qualunque seggio deve essere chiuso, qualunque scheda sequestrata».
Questo in termini legali, ma se ci saranno migliaia di persone a fare da scudo umano ai seggi come farete ad impedire il voto?
«Semplicemente il referendum non deve esistere. Pena la stravolgimento dell’ordine legale. Siamo una democrazia europea del XXI secolo, non un Paese delle banane. La polizia ha ordini precisi della Procura e deve impedire di organizzare e realizzare il voto».
Enric Millo è il «delegado» del governo spagnolo in Catalogna, in Italia sarebbe il prefetto. È catalano, ma vive un momento quanto meno imbarazzante. Ieri al ristorante sull’elegante Paseo de Grácia, appena una signora ha capito chi fosse il suo vicino di tavolo si è alzata gridando e pretendendo un altro posto, più lontano. Tornato in ufficio si è scoperto assediato per ore da 400 trattori. Ma Millo tira dritto: «Il Fiscal General dello Stato — la Procura generale della Repubblica in Italia, ndr — ha preso atto della sentenza del Tribunal Supremo — che in Italia sarebbe la Corte Costituzionale, ndr — e ha vietato il voto. C’è poco da discutere».
Fin dove siete disposti ad arrivare? Idranti? Fumogeni? Manganelli?
«L’azione dello Stato sarà serena, tranquilla, ferma e proporzionale. Spero con tutto il cuore che non ci siano provocazioni, ma in ogni caso le forze dell’ordine devono sempre attenersi ai criteri di azione di una democrazia».
Ce li ricorda?
«Diritti civili dei cittadini e integrità fisica delle persone».
Funziona il coordinamento tra la polizia regionale (i Mossos) e i rinforzi arrivati dal resto di Spagna?
«Senza problemi, secondo la legge. Ci sono ordini scritti e vanno rispettati. Josep Lluis Trapero, il comandante dei Mossos, è un buon poliziotto e non dubito che saprà eseguire ciò che gli compete».
Cosa succederà dopo la giornata di domenica?
«Nel corso di domenica si potrebbero concretizzare una serie di reati che vanno dall’ambito del diritto civile per la disobbedienza ad una sentenza fino all’ambito del diritto penale. Penso al cattivo uso del denaro pubblico (malversazione) o un delitto ancora più grave che è la sedizione contro lo Stato».
La sedizione prevede anni di carcere. Gli attuali leader politici catalani rischiano di persona?
«A parte le responsabilità civili per le quali potrebbero dover pagare delle multe, potrebbero essere condannati penalmente e quindi anche inibiti all’attività politica».
Gli indipendentisti sono convinti di riuscire, nonostante divieti, recinzioni, multe e sequestri, a votare.
«La Generalitat ha sempre parlato di un “referendum effettivo, con garanzie e vincolante”. Poi il President ha detto “usciremo di casa con la scheda e voteremo”. Siamo seri, il referendum così fatto, sarebbe comunque una farsa o, per essere più ottimisti, una parentesi brutta che si chiuderà quando passeranno le 48 ore per la dichiarazione di indipendenza. Solo allora il dialogo potrà ricominciare».
A. Ni.REPUBBLICA.IT
NAZIONALE - 30 settembre 2017 Barcellona in piazza, l’ultima sfida Giudice blocca il voto elettronico Spagna nel caos, il re cancella tutti gli impegni. Madrid: non ci sarà referendum UNA notte di festa, il fronte indipendentista in piazza per chiudere la campagna elettorale più atipica che si sia mai vista. A migliaia hanno affollato la grande spianata di fronte alla collina del Montjuïc di Barcellona per rivendicare il diritto a poter andare urne, domani, per il referendum dichiarato illegale dalla Corte costituzionale. A poche ore dal voto il governo regionale di Carles Puigdemont è convinto di aver aggirato gli enormi ostacoli - dagli arresti al sequestro di schede - con cui Madrid ha cercato di impedire la consultazione. L’ultimo blitz della magistratura è di ieri sera, con il Tribunale supremo catalano che ha ordinato alla Generalitat di sospendere il sistema di voto elettronico. Da Madrid, il portavoce della Moncloa, Iñigo Méndez de Vigo, ha insistito sul fatto che «non ci sarà alcun referendum». Ma questo non significa che si proibirà ai catalani di votare. Il capo dei Mossos d’Esquadra, la polizia regionale, Josep Lluis Trapero, prevede una presenza discreta degli agenti intorno ai seggi per evitare problemi di ordine pubblico. Le reazioni politiche dello Stato centrale arriveranno a urne chiuse: il premier Rajoy seguirà l’andamento della giornata dal suo ufficio alla Moncloa, il re Felipe VI ha annullato tutti gli impegni dei prossimi giorni in previsione di una possibile crisi istituzionale. L’ultimo sondaggio della rete tv LaSexta parla di un 52,2% di sì all’indipendenza contro il 43,5% di “no”. Da lunedì si vedrà se, tra i separatisti, prevarrà la linea dura di chi vuole l’indipendenza subito o l’opzione di chi propone un dialogo con Madrid.
INTERVISTA ALLA NON INDIPENDENTISTA Inés Arrimadas, 36 anni IL PERSONAGGIO. PARLA LA LEADER CATALANA DI CIUDADANOS DAL NOSTRO INVIATO BARCELLONA. Bella, determinata, coraggiosa e giovane. Inés Arrimadas, 36 anni, non è soltanto la leader del movimento unionista in Catalogna. È ormai, assieme a Albert Rivera, il capo di Ciudadanos, il volto emergente del centrodestra spagnolo. Avvocato, tifosa del Barça - nonostante Piqué -, è il capo dell’opposizione nel Parlamento catalano dal 2015. «In queste settimane - dice a margine dell’ultima iniziativa del fronte contrario all’indipendenza - stiamo vivendo un golpe alla democrazia, organizzato dal presidente Puigdemont e dalla maggioranza parlamentare secessionista, contro qualsiasi regola». Ma è vero che oggi a Barcellona a essere contro il referendum si rischia il linciaggio? «Purtroppo sí, un linciaggio verbale naturalmente. Ma linciaggio comunque. Basta guardare cosa è successo a Juan Manuel Serrat, un cantautore catalano famosissimo, un’icona dell’identità e della storia catalana, che è stato accusato di tradimento solo per avere messo in dubbio che così com’è il referendum non ha tutte le garanzie democratiche per essere valido». Inés è nata a Jerez de la Frontera, provincia di Cadice, in Andalusia, ma la sua famiglia è originaria di Salamanca. Anche suo padre, avvocato, era in politica. Fu consigliere comunale nel partito di Adolfo Suarez, i centristi post dittatura. Inés è l’ultima di cinque figli (tre maschi e due femmine) e - ha raccontato sua madre - ha sempre subíto un’attrazione speciale per Barcellona, dove i suoi genitori avevano vissuto prima che nascesse, tanto da mettersi a studiare catalano al Liceo. E di trasferirsi a lavorare nella capitale catalana dopo la laurea. Studi a Sevilla, Erasmus a Nizza, entrò in politica, nella gioventù di Ciudadanos nel 2010, ma già nel 2012, a 31 anni, fu eletta deputato al Parlamento catalano. Su quello che sta accadendo in Catalogna ha le idee chiare. «Il governo Rajoy dice - ha fatto molti errori in questi anni. Moltissimi. Il primo e più importante è stato disinteressarsi di quello che succedeva qui. Ma questo non giustifica quello che sta facendo Puigdemont. Il referendum non ha alcuna base legale. È un happening, una festa, nella quale la maggioranza dei catalani non avranno la possibilità di esprimere il loro voto. C’è una campagna feroce contro chi non condivide le idee del nazionalismo. Ci chiamano con disprezzo ‘sudditi’ (del re di Spagna). Un deputato della maggioranza in un meeting davanti a migliaia di giovani ha detto che se non lottavano per il referendum avrebbero commesso un delitto di ‘tradimento alla patria’. Quando un governo lancia questo genere di messaggi di odio contro chi dissente è facile che influisca poi nel comportamento sociale». L’altro aspetto, secondo Arrimadas, è il discredito. «Io non mi permetterei mai di insultare gli elettori che non sono d’accordo con me». Quando arrivò nel Parlamento regionale, Arrimadas scandalizzò tutti perché pronunciava i suoi interventi in spagnolo. Fino ad allora nessuno, anche dall’opposizione, si era azzardato a non usare il catalano. Inés è poliglotta: parla catalano, inglese e francese. Un anno fa, ha sposato un deputato che stava sul fronte opposto al suo, nel vecchio centrodestra catalano nazionalista di Pujol, Artur Mas e ora Puigdemont. Ma che, per amore, ha lasciato l’attività politica. Sul day after Inés dice: «La prossima settimana faranno qualche curiosa dichiarazione in Parlamento sull’avvio di un processo indipendentista. Ma non è così che si risolvono i problemi. Bisogna tornare a votare e unire tutte le forze contrarie alla separazione della Spagna. La Catalogna ha diritto a maggiore autonomia ma l’indipendenza non ha senso», conclude mentre si avvia tra gli applausi verso il palco. Anche gli unionisti hanno la loro star. ( o. c.)
DOCENTE DI DIRITTO COSTITUZIONALE
NAZIONALE - 30 settembre 201730/9/2017le scelte dellâ??europa IL DOCENTE DI DIRITTO “La via scelta stavolta va contro la Costituzione” LUCREZIA CLEMENTE IL PROFESSOR José Antonio Montilla Martos, docente di Diritto costituzionale all’università di Granada, si è a lungo occupato della questione indipendentista catalana. Gli arresti e le perquisizioni a cui abbiamo assistito sono legittimi? «Le detenzioni sono state ordinate da un giudice, con atti giudiziari e garanzie da Stato di diritto. Si può contestare la loro convenienza politica». Il “dret a decidir” rivendicato dai catalani ha fondamento giuridico? «Il diritto a decidere è un’aspirazione politica legittima, come ha riconosciuto il Tribunale costituzionale nel 2014. Oggi però non è riconosciuto dalla Costituzione, dunque non si può esercitare. Affinché sia riconosciuto è possibile riformare la Costituzione dato che non c’è alcun principio costituzionale immodificabile, neanche l’indissolubile unità della nazione spagnola». In Catalogna si era votato per l’indipendenza il 9 novembre 2014. Che cos’è cambiato? «Nel 2014 le istituzioni catalane hanno cercato di agire nell’ambito della legalità costituzionale, anche se per forzarla. Chiesero allo Stato la competenza per convocare il referendum sull’indipendenza e dopo la sentenza del Tribunale costituzionale che stabiliva l’impossibilità di convocarlo, optarono per una consultazione popolare, una forma di partecipazione differente dal referendum. Nel 2017 la condotta è stata diversa. Hanno approvato una legge sul referendum di autodeterminazione a partire dal riconoscimento della sovranità della Catalogna, in contraddizione con la Costituzione. Così il comportamento dello Stato non può essere lo stesso del 2014». La crisi catalana è il segnale che il modello statale spagnolo del ‘78 non è più attuale? «Sì, lo Stato delle autonomie è in un declino terminale. Da anni necessita di una riforma. La crisi catalana deve essere lo stimolo per una revisione del modello territoriale in senso federale». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
OMERO CIAI
OMERO CIAI DAL NOSTRO INVIATO BARCELLONA. .Un omone è appena sceso dal trattore fermo insieme ad altri cinquecento automezzi in pieno centro di Barcellona, calle Mallorca, due chilometri dalla Rambla e dalla città vecchia. «Che ci fate qui?». «Siamo venuti a difendere il voto». Si chiama Pep, come Guardiola, ma chiama subito un suo amico. «Ehi, parlaci tu con questo giornalista che capisce poco il catalano». Così arriva Jordi, agricoltore, 43 anni. «Veniamo da tutta la Catalogna con i trattori per dire a Rajoy che domenica vogliamo votare». Un viaggio lungo e lento? «Per me no - dice Jordi -, lavoro qui in provincia di Barcellona». Jordi ha due figli e ora andrà a occupare una scuola. «In realtá non è proprio una occupazione - aggiunge -, l’associazione dei genitori ha organizzato una festa. Così tutti quelli che hanno figli possono andare e impedire alla polizia di chiudere i seggi. Non credo proprio che avranno il coraggio di sgomberarci con la forza. Io mi porto il sacco a pelo e resto fino a domenica», conclude. L’ultima battaglia sul referendum catalano che Madrid, oltre a considerarlo illegale ha ordinato agli agenti dei Mossos di impedirlo, inizia così, con i genitori che occupano le scuole dei figli. I giornali l’hanno già chiamata “la festa del pigiama”, ma Pep fa un calcolo semplice. «Ci sono 2.300 seggi e 10mila poliziotti mandati da Madrid. Quelli dei Mossos non contano - dice -, quelli sono nostri e non ci impediranno di votare. Come faranno a recintare tutti i seggi? Nelle grandi città ci può essere qualche problema, ma in provincia dove voto io, voteremo». Ieri mattina, il vice presidente catalano Junqueras, il portavoce del governo Turull e il “ministro degli esteri” Raül Romeva, con un ultimo atto di ribellione a Madrid, hanno annunciato che domani in Catalogna ci saranno 2.300 urne per votare. La Generalitat, il governo di Barcellona, le ha comprate da una azienda cinese, la Smart Dragon. Costo 5 euro l’una. Sono di plastica ma hanno il logo della Generalitat e - aggiunge Junqueras - sono facili da spostare, «gli elettori - dice - potranno votare anche per la strada». Insomma dovunque troveranno un’urna i catalani potranno dare un senso alla loro pacifica rivolta. Ma la battaglia continua, almeno quella mediatica. Ieri un magistrato ha ordinato a Google di chiudere l’applicazione che consente agli elettori di sapere dov’è il loro seggio. L’indirizzo web era stato reso noto dallo stesso presidente Puigdemont dopo che la polizia aveva oscurato più di cento pagine dedicate al referendum. La tensione cresce, in qualche scuola i Mossos sono intervenuti per sloggiare gli occupanti o per impedire che altri entrassero ma tutto si è svolto senza incidenti. I padri entrano nelle scuole con la valigia con i bambini per mano. Ma tutto questo dovrebbe finire all’alba di domenica. Ieri sera gli agenti della polizia catalana a Barcellona giravano per tutte le scuole occupate annunciando che all’alba di domani dovranno sgomberarle. Una misura che potrebbe far esplodere problemi di ordine pubblico. Ma da Madrid l’input è chiaro, nessuno deve riuscire a votate domani. Per il governo centrale sarebbe infatti una sconfitta difficile da gestire. Soprattutto ora che proprio l’intransigenza, gli arresti dei funzionari della Generalitat e tutte le altre minacce, sembrano aver convinto un numero maggiore di elettori a votare. O almeno a tentare di farlo. Ieri addirittura un sondaggio dell’ultima ora sosteneva che almeno altri 600 mila elettori avrebbero deciso di partecipare. I cittadini chiamati alle urne sono 5,3 milioni. Tre anni fa, nel referendum non vincolante convocato da Artur Mas, votarono poco più di due milioni, il 37% del totale del censo. Ora, al governo di Puigdemont, per dichiarare vittoria e proseguire sulla strada, piena di incognite, della separazione, basterebbe appena qualche voto in più. Per questo Rajoy da Madrid è inflessibile. Se riescono a votare è davvero una disfatta. Per dare un’idea del clima di ansia che si vive nei due schieramenti basta aggiungere che re Felipe ha cancellato dall’agenda tutti gli impegni previsti per la prossima settimana. Mentre dal governo Rajoy è arrivata l’ennesima minaccia: i cittadini che accetteranno di presiedere i seggi rischiano multe amministrative da 600mila euro.
FELIPE GONZALEZ
SPAGNA è uno spazio pubblico condiviso, una realtà storica che conta più di 500 anni, una delle nazioni più antiche del mondo, dotata di una Costituzione moderna, quella del 1978, concordata tra le più diverse forze politiche e ratificata dai cittadini in modo ampiamente maggioritario. È un paese plurale, dove coesistono diverse lingue con il castigliano, come il catalano, il basco e il galiziano. La sua configurazione politica è fortemente decentrata e quelle che chiamiamo Comunità Autonome, con i loro governi e parlamenti, hanno un gran numero di competenze simili a quelle delle federazioni più decentrate come quella tedesca. Le norme che disciplinano l’autogoverno sono sviluppati nel quadro della Costituzione spagnola, che garantisce la sovranità di tutti i cittadini spagnoli, che godono di uguali diritti e doveri, e al tempo stesso riconosce la diversità dei popoli di Spagna. Arrivare a questo punto è stato difficile in un periodo storico in cui la Spagna cercava di superare conflitti storici ben noti, e il cui ultimo stadio è stata l’uscita democratica da una lunga dittatura. Da quel patto costituzionale, la Spagna ha conosciuto il più lungo periodo di convivenza nella libertà e di modernizzazione e il più brillante sviluppo politico, economico e sociale della sua storia. Contro questa realtà si solleva un movimento secessionista in Catalogna, che cerca di liquidare la Costituzione e lo Statuto di autonomia, distruggendo la legalità vigente e la legittimità dello stesso governo della Catalogna. In Spagna tutte le idee possono essere liberamente espresse e difese. Pertanto nessuno può opporsi al fatto che ci siano cittadini che difendano l’indipendenza di un territorio o, al contrario, vogliano mettere fine allo Stato delle Autonomie. In questo caso, si tratta di far scomparire la sovranità di tutti gli spagnoli nel decidere il proprio futuro, sostituendola con una nuova sovranità , esercitando un presunto diritto all’autodeterminazione che viola la Costituzione e lo stesso Statuto di autonomia. Ciò che sostengono le autorità catalane non ha alcun fondamento giuridico. Per questo è uno sproposito democratico. È vero che si è creata una frattura che sarà difficile sanare e che richiederà talento politico, capacità di governo e alleanze. Ma nei momenti che stiamo vivendo possiamo solo rispettare e far rispettare la legge contro la secessione che pretendono di mettere in atto. © El Pais / Lena ( traduzione di Luis E. Moriones) ©RIPRODUZIONE RISERVATA L’AUTORE Felipe González Márquez, 75 anni, è stato premier della Spagna dal 1982 al 1996 ed è stato segretario del Partito socialista spagnolo (Psoe) dal 1974 al 1997
LA STAMPA
F.OLI.
Si vota domani o almeno ci si proverà. L’ordine della casa è esplicito: normalità. Il governo catalano riunisce la stampa e, come se si trattasse di elezioni qualsiasi, descrive la logistica del referendum più conteso di sempre: 6249 seggi per 5,3 milioni di elettori. Poi, con un colpo di scena ben studiato, ecco comparire un’urna. Niente di esoterico, certo.
Ma nell’anomalia di questi giorni qualcuno si emoziona davanti all’oggetto desiderato da alcuni e ricercato da altri. E l’epica del momento non è scalfita da una notizia che arriva poco dopo: i contenitori di schede sono stati acquistati, 5 euro l’uno, da un’azienda cinese che giura (forse annusando aria di guai) di averle mandate in Francia. La campagna elettorale proibita si è chiusa ieri con un comizio patriottico, sotto al Montjuic di Barcellona, la collina sacra del catalanismo e delle sue tragedie. Luci, musica e tanta folla (80 mila secondo gli organizzatori), con il capo della Generalitat Carles Puigdemont che sente profumo di storia: «Non ci hanno fermato, voteremo».
Ora però, per gli indipendentisti inizia la sfida più complessa: mettere queste urne all’interno dei seggi, non una banalità visto che la polizia ha l’ordine di non aprire i locali e di sequestrare tutto il materiale. Detta così, sembrerebbe persino semplice: ma gli agenti incaricati dal giudice sono i Mossos d’Esquadra, il corpo catalano che vive giorni di grandissime contraddizioni. Il capo, Josep Lluis Trapero, si barcamena da tempo, sempre sul filo dell’ammutinamento: per uscire dal dilemma (disobbedire alla legge o tradire il governo locale) Trapero ha trovato una situazione di compromesso: «Tenere chiusi i seggi, ma senza l’uso della forza». L’ambiguità viene fatta notare da Madrid: come si sgombera una sezione elettorale piena di gente che vuole votare? I poliziotti dovrebbero farsi trovare ai seggi alle sei del mattino (tre ore prima dell’apertura), ma anche questo punto è accolto con dubbi spagnoli: e se qualcuno si trovasse dentro dalla notte? L’ipotesi è fondata: già da ieri sera gruppi di genitori indipendentisti hanno occupato delle scuole (con i figli) per evitare i sigilli, sono i «pigiama party del Sì», ennesimo momento pittoresco in un momento drammatico. I giudici non ci trovano niente di comico: «I presidi che cederanno le chiavi degli istituti ne risponderanno penalmente». Alcuni attivisti hanno provato l’azione già ieri al Raval, nel centro di Barcellona, ma sono stati respinti.
L’ordine pubblico è la preoccupazione più grande di queste ultime ore che precedono il fatidico primo ottobre. Nel governo spagnolo, dopo giorni di prevalenza dei falchi, ora sembrano trovare ascolto anche le colombe, il cui obiettivo sarebbe evitare la violenza, tollerando qualche seggio sparso per la regione. Consentire un simulacro, insomma, per evitare cose peggiori. Intanto Madrid ha ordinato di chiudere lo spazio aereo sopra Barcellona a elicotteri, aerei privati e droni. A sorvegliare ci saranno 10 mila agentin inviati dal governo Rajoy.
La linea ufficiale resta, però, quella della fermezza più assoluta, non solo per il voto di domani, ma anche per la complicata settimana che comincerà il 2 ottobre: «Puigdemont e Junqueras non saranno gli interlocutori», dice il portavoce dell’esecutivo Rajoy, Méndez de Vigo, indicando il presidente e il vice della Generalitat come responsabili di questo scontro inedito. «Non è un vero referendum, ne risponderanno penalmente e anche da un punto di vista patrimoniale». Il re Filippo VI tace, ma cancella tutti gli impegni della settimana prossima. Stessa cosa fanno i ministri, così salta anche il vertice con l’Italia a Roma, in programma da lunedì. Il governo catalano ha annunciato contro denunce: «Per perseguire un’idea hanno utilizzato le strutture dello Stato, dimenticando la divisione di poteri». Ultimi fuochi prima del giorno del silenzio. Ammesso che qualcuno taccia
LA STAMPA
PARLANO GLI ANTINDIPENDENTISTI
Barcellona è in questi giorni un trionfo di esteladas, la bandiera dell’indipendentismo, di volantini e messaggi a favore del sì a un referendum che Madrid considera illegale, ma che qui ripetono che si farà. Chi è contrario non si vede né si sente. Eppure c’è se, come dicono i sondaggi, la maggioranza della popolazione appoggia la celebrazione di un referendum ma non necessariamente l’indipendenza. E come dimostra il risultato delle elezioni di due anni fa, che dovevano essere plebiscitarie per l’indipendentismo, che ottenne però in totale il 47,8% dei voti. La chiamano la maggioranza silenziosa.
«Siamo i catalani che vogliono restare in Spagna», dice Mariano Gomà, un architetto che è il presidente della Sociedad civil catalana, un’associazione con 18 mila simpatizzanti nata nel 2014 per contrastare la narrativa dell’indipendentismo. «Siamo un po’ i rappresentanti di questa maggioranza che nelle ultime elezioni ha detto no all’indipendenza, perché la maggioranza non ha votato i partiti indipendentisti. È successo che con un gruppo antisistema - l’anticapitalista Cup - i partiti indipendendisti avessero la maggioranza in Parlamento. Ma non rappresentano la maggior parte del popolo catalano», dichiara Gomà, che in questi giorni passa da un’intervista all’altra. Gomà parla di una maggioranza silenziosa ma anche di quello che definisce una maggioranza silenziata: «La società catalana mai ha pensato seriamente che si arrivasse a questo punto, molti pensavano che si sarebbe trovata una soluzione e che magari questo serviva per avere migliori condizioni per la Catalogna. Per questo è rimasta in silenzio. Ma poi c’è anche una maggioranza silenziosa, di commercianti, imprese, funzionari dello Stato, della Generalitat, che è stata zitta per paura della repressione nel caso non avesse obbedito al sistema indipendentista».
Quando a Gomà gli si chiede come si sia potuto arrivare a questo punto, rispose che la colpa è di tutti: «Da un lato un gruppo di pazzi che ha pensato di poter raggiungere l’indipendenza quando è assolutamente impossibile, con il sogno o il delirio di credere che la Catalogna indipendente sarebbe più ricca, quando invece è il contrario. Ma la colpa è anche dei governi spagnoli, non solo dell’ultimo, che hanno permesso che in Catalogna si potesse lavorare nell’ombra per far crescere un clima ideologico che ora sta esplodendo. E l’ultimo governo è colpevole di non aver fermato questa situazione prima».
La Sociedad civil catalana, che nel 2014 ha ricevuto il Premio Cittadino Europeo del Parlamento Europeo, ha annullato la manifestazione prevista ieri per dar voce a chi era contro il referendum. «Chiediamo alla gente che non vada a votare, perché se va commette un atto illegale. Abbiamo cancellato la manifestazione perché far scendere la gente in piazza equivaleva a partecipare a una provocazione, con il rischio di violenze incontrollate». Gomà dice che l’ispanofobia di cui qualcuno parla in questi giorni non rappresenta lo spirito della Catalogna «ma solo del 15-20% di radicali che ci sono all’interno del 45-48% di appoggio che ha l’indipendentismo. Quel 15-20% è ispanofobo perché nelle scuole e nelle università hanno insegnato ai bambini e ai giovani che la Spagna ci sta derubando e che la Spagna è il nemico».
LA STAMPA
FRANCESCO OLIVO
Meglio una multa che un carro armato. Ogni tentativo di dialogo sulla questione catalana è naufragato senza margini di recupero. Così, la battaglia del referendum si è spostata sulla logistica. Il governo spagnolo, al di là dell’apparente immobilismo, aveva da tempo studiato questo scenario di frattura, così invece di mandare i tank sulla Diagonal (il sogno proibito degli estremisti dei due schieramenti), ha condotto tante azioni di sabotaggio a quello che viene considerata la peggiore minaccia alle istituzioni dalla fine della dittatura (1975). Il tutto secondo un principio non peregrino: essere inseguiti da un militare può essere eroico, ma un ufficiale giudiziario con in mano una notifica fiscale è un deterrente che non lascia gloria.
Urne
Il governo catalano ha mostrato la prima urna del referendum soltanto ieri mattina. Il tutto con un gesto plateale che la dice lunga sul valore simbolico che ha assunto questo semplice contenitore di schede. La polizia spagnola (a differenza di quella catalana) si è messa alla ricerca delle urne non appena il tribunale costituzionale ha proibito il referendum. Blitz più o meno riusciti (per un errore sono state perquisite anche aziende che fabbricano vasetti di yogurt) e non solo in Catalogna, visto che voci ricorrenti volevano il deposito in regioni lontane, come la Galizia.
Le schede
Molto più semplice è stato trovare e sequestrare le schede, l’altra ossessione di magistratura e polizia. Le perquisizioni sono scattate ovunque, nelle tipografie e anche nella redazione di un giornale locale. Ne sono state requisite circa 14 milioni (calcolo approssimativo), tanto che il governo catalano è arrivato a dire ai cittadini: «Stampatevele a casa». Una proposta bizzarra poi parzialmente smentita. A ogni perquisizione si raduna un folla di indipendentisti che intona cori di scherno contro la Guardia Civil: «Donde estan las papeletas?» (E le schede dove sono?).
I sindaci
Altro modo di ostacolare il referendum è far arrivare la pressione sui sindaci. Con una misura molto criticata, anche all’interno della magistratura, il procuratore capo ha iscritto sul libro degli indagati tutti i primi cittadini catalani che avevano dato la disponibilità alla Generalitat per cedere locali in vista del voto, circa 720. I sindaci sono stati convocati per essere interrogati dai giudici. Rischiano pene serie.
I siti
Sono già alcune centinaia i siti Internet bloccati dalla Guardia Civil, colpevoli di contenere informazioni pratiche sul voto proibito. Hanno subìto questo destino anche le pagine web istituzionali con le quali la Generalitat dava indicazioni ai cittadini sui seggi. Ma dopo pochi minuti, i siti vietati ricomparivano sotto altri domini. «C’è la mano degli hacker russi», ha scritto «El País». Un magistrato ieri ha mandato un avviso anche a Google: rimuovete l’applicazione sul referendum.
Le lettere
Alle Poste spagnole, «Correos», è stato ordinato di bloccare tutte le lettere con la quale la Generalitat incaricava scrutatori e presidente di seggio. La misura, controversa per ragioni di privacy, ha avuto conseguenze dirette: la costituzione delle sezioni elettorali è stata una delle difficoltà più grandi nell’organizzazione del referendum.
Le multe
Ormai non si contano più. In Spagna il luogo comune verso i catalani è quello di essere poco disposti ad aprire il portafoglio. Ma anche i più generosi si spaventerebbero davanti all’entità delle contravvenzioni minacciate: fino a 300 mila euro per chi prende parte alla formazione dei seggi, 12 mila al giorno per i membri della commissione elettorale. I politici sono i più esposti: l’ex presidente catalano Artur Mas deve sborsare 5,2 milioni di euro come cauzione, dopo la condanna in primo grado per aver organizzato il referendum consultivo del 9 novembre 2014. A ogni corteo si fa la colletta per aiutare i condannati.
La pubblicità
Esplicitamente proibita anche la pubblicità istituzionale o meno del referendum (le istruzioni su come e dove votare eccetera). Nessuno è autorizzato a pubblicare manifesti o a trasmettere gli spot. Per notificare gli atti la Guardia Civil è entrata nelle redazione di alcuni giornali indipendentisti (come «El punt Avui»), visite che hanno scandalizzato gli indipendentisti e parte della sinistra spagnola.