l’Espresso, 17 settembre 2017
«Piacere, signora Fiom». Intervista a Francesca Re David
La chiamano la Monica Vitti del sindacato. Forse perché è bionda, perché è espansiva, perché ha il senso dell’umorismo e della battuta sagace. O forse semplicemente per farle sapere che sono contenti di averla lì, prima donna a capo del più antico sindacato italiano, zoccolo duro di quell’aristocrazia operaia che ha dato il segno alle lotte di classe del secolo scorso. E Francesca Re David vive la luna di miele con i delegati e gli iscritti alla Fiom con evidente naturalezza, perché quella è la sua casa da trent’anni, dove tutti la conoscono e tutti l’hanno sempre vista lavorare sodo. Anche se la spinta decisiva gliel’ha data Maurizio Landini, che lo scorso luglio ha proposto che gli succedesse come segretario generale.
La incontriamo nella stanza che fu, appunto, di Landini e che, dopo essere rimasta antiquata e polverosa per decenni, è diventata improvvisamente chiara e ariosa. A misura della nuova inquilina, che si mostra disponibile a parlare per la prima volta di sé come sindacalista e come donna.
Non posso che cominciare da una curiosità: che cognome è il suo?
«Me lo chiedono sempre tutti. È un cognome barese, molto raro se è scritto staccato. Rimanda a origine ebraiche ma sembra che sia tipico dei convertiti. È anche piuttosto plebeo, un po’ come Diotallevi per i cattolici, che veniva usato per i trovatelli».
Invece lei è chiaramente una borghese e non ha mai lavorato in fabbrica.
«Come non ci avevano mai lavorato Trentin, Sabattini, Lama e tanti altri grandi dirigenti della Cgil e della Fiom».
Del resto le rivoluzioni le hanno sempre fatte i borghesi. Quale sarà la sua?
«Rimettere insieme quello che questi brutti anni hanno separato e disperso: la coalizione dei lavoratori. In un mondo che ha messo al centro l’impresa e la finanza, dove un dirigente d’azienda guadagna 400 volte di più dei suoi operai, il lavoro deve ritrovare la sua narrazione».
Narrazione? Anche lei si affida più al racconto che ai fatti?
«Al contrario. Ma è necessario smentire le grandi bugie. Non è vero che le tute blu sono sparite visto che la produzione industriale è aumentata enormemente. Non è vero che rappresentano il vecchio, visto che le aziende siderurgiche sono piene di giovani. È vero invece che il lavoro operaio è cambiato, si è fatto più cognitivo ma anche più isolato e sotto attacco. E soprattutto ha smesso di essere considerato un valore. Una nuova narrazione serve a restituirgli rappresentanza politica».
È per questo che è stata scelta una donna? Perché sono tempi di mediazioni e ricuciture, non più di carisma?
«Nel carisma non conta il genere e le donne dirigenti sono ormai una realtà solida nel sindacato. Pensi solo a Susanna Camusso nella Cgil e Annamaria Furlan nella Cisl. Non nego che nella Fiom ci sia ancora un fondo maschilista, ma sa qual è la vera differenza tra una donna e un uomo sindacalisti?».
Quale?
«Le sindacaliste non hanno una moglie. Vivono in prima persona il lavoro, la casa, la famiglia e i mille altri impegni della quotidianità. È un esercizio che induce a pensieri più complessi e articolati. Con una sensibilità sui tempi di lavoro e di vita, che si dimostra utile anche per gli uomini».
Vedremo anche lei spesso in tv, come ci aveva abituato Landini?
«Ci andrò il più possibile. Ma sarà difficile imitare Landini che è un comunicatore naturale. Lo vedi parlare in fabbrica e noti una totale identificazione con gli operai: è uno di loro. Lo vedi in tv è scopri che è esattamente lo stesso, senza filtri».
Lei quali filtri userà per trovare una continuità?
«Nessuno, perché darò un’altra immagine: la mia. Guardi che io non sono poi così diversa, non vengo, come si crede, da una famiglia ricca. Siamo stati benestanti finché era vivo mio padre che faceva l’avvocato. Ma è morto di colpo quando avevo 14 anni, lasciandoci me, mia madre e mia sorella senza troppe risorse. Di lì a poco ho sempre lavorato. Mi sono mantenuta all’università dando lezioni di nuoto, perché avevo il brevetto di salvamento ed era più divertente che fare la cameriera. Poi, via via piccoli incarichi di ricerca, sempre sotto il segno del sociale e della politica».
Già, la politica. È noto che si è iscritta al Pci da ragazzina.
«A 15 anni, ma è stato un caso se ho incontrato il Pci. Facevo politica a scuola e la sezione del mio quartiere, Ponte Milvio, era molto frequentata e tra gli iscritti c’era anche Enrico Berlinguer. Però avrei potuto anche finire in Lotta Continua».
Non è andata così e lei è rimasta nel Pci fino alla Bolognina.
«Ho chiuso lì e non mi sono più iscritta a niente. Come del resto ha fatto la maggioranza dei compagni della mia sezione. È stata una scelta collettiva, mentre altre erano state intanto le mie scelte personali».
La famiglia, immagino. Lei è stata quasi una sposa bambina.
«Non esageriamo. Avevo diciotto anni e avevo finito gli esami di maturità da cinque giorni. Il matrimonio era l’unico modo per vivere con il ragazzo che amavo, perché mia madre non ammetteva altri tipi di convivenza. E ci tengo a dire che non ero incinta. La mia prima figlia è nata due anni dopo».
Quindi il suo matrimonio dura da 40 anni. Come ci si riesce di questi tempi?
«Io sono una persona molto appassionata, ma incapace di passioni fugaci. Sia nel lavoro sia nei rapporti, non cambio passioni. E poi mio marito ha sempre avuto modo di sorprendermi. È un uomo irrequieto, che insegue anche come regista i suoi interessi sociali. Una volta mi ha messo in casa per tre mesi un ergastolano».
Questa è da conoscere. Racconti.
«Un camorrista, che lui aveva incontrato durante una inchiesta sulle carceri e sul quale ha scritto un libro, si ammala di cancro. Gli concedono gli arresti domiciliari, ma può essere curato soltanto a Roma e non ha un posto dove andare. Mio marito accetta di prenderlo in casa. Era l’unico modo per salvargli la vita».
Come è andata la convivenza?
«È stata faticosa, nonostante Mario Savio, così si chiama il camorrista, cercasse di non essere invadente. Era un criminale intelligente. Comunque i controlli della polizia due volte al giorno, la visita dei suoi famigliari e degli amici napoletani, la nostra figlia più piccola, allora quindicenne, molto spaventata... sì, è stata una scelta difficile, ma la rifarei».
Che ne è stato del detenuto?
«Ha avuto il trapianto di fegato ed è guarito. E io oggi posso specchiare le mie paure in un film, girato sempre da mio marito, che si chiama “Socialmente pericolosi”, dove il mio personaggio è interpretato dalla brava Michela Cescon».
Prima di lasciarla ho ancora una piccola curiosità. Si farà chiamare segretario o segretaria, nonostante questo sia un femminile che evoca altre mansioni?
«Opto per segretaria. Rende meglio il mutamento dei tempi. Ma vorrei aggiungere ancora una cosa a questi spunti di narrazione che ho cominciato con lei».
«Farò un progetto di formazione sulla questione migranti che parta dai luoghi di lavoro. Noi abbiamo il compito culturale di far sapere che in alcuni posti il 25 per cento dei nostri iscritti è composto di lavoratori stranieri perfettamente integrati, che spesso sono anche eletti delegati. E chiedere: perché nel luogo di lavoro vengono riconosciuti e fuori sono temuti come invasori? La risposta è nella forza di una condizione che tiene insieme le persone attraverso la dignità del lavoro».