Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2017
Hackeraggio e ricatto in bitcoin, primi arresti
Giuseppe De Falco, capo della Procura di Frosinone, ha voluto seguire personalmente l’indagine “virtual money” delegata al nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza, che ieri ha portato all’arresto di due persone (altre cinque hanno obbligo di firma), tutte indagate per associazione per delinquere finalizzata all’estorsione, alla frode informatica e all’auto riciclaggio.
Il capo della Procura, evidentemente, aveva ben chiara l’importanza di un’indagine che, tra le prime in Italia, dopo sei mesi avrebbe condotto alla disarticolazione di una presunta organizzazione criminale dedita all’estorsione con pagamento in bitcoin. «In questa indagine il bitcoin – spiega al Sole 24 ore il tenente colonnello Calogero Scibetta del gruppo antifalsificazione monetaria del Nucleo speciale di polizia valutaria della Gdf – si è rivelato un raffinato strumento di riciclaggio».
Le indagini sono partite dalla segnalazione da parte di Poste italiane di 17 operazioni sospette, attraverso le quali venivano registrate operatività anomale su circa 40 carte postepay ricaricabili con Iban. Sulle carte prepagate arrivano movimentazioni sospette di denaro proveniente da ogni parte d’Italia. Nel giro di quattro mesi sono stati movimentati anche 100mila euro per carta ma sempre in modo molto frazionato, con bonifici compresi tra 100 e 400 euro (il corrispettivo di ogni singola estorsione). In 12 mesi circa un milione.
In realtà questo tassello faceva parte di un puzzle molto più ampio e internazionale. Le movimentazioni di denaro anomale erano infatti collegate ad altre carte e conti correnti, in un gioco di scatole cinesi, per poi finire in conto corrente di una tra le più importanti società al mondo del settore che legittimamente vendeva bitcoin.
Le intercettazioni messe in campo hanno permesso di svelare il ricatto dietro questi versamenti.
La presunta organizzazione criminale inviava per via telematica un virus ad aziende e privati, scelti paradossalmente a caso in tutta la penisola, con il quale bloccavano il funzionamento dei computer. Sull’homepage del pc compariva la solita finestrella che più o meno recitava: «Se vuoi riappropriarti delle normali funzioni devi versare delle somme attraverso i bitcoin. Puoi acquistarli su un sito (che era riconducibile alla presunta associazione criminale, ndr) che compra e vende bitcoin».
«Proprio questa apparente attività di compravendita – spiega ancora Scibetta – nel passato ha permesso a questo sito di farla franca in precedenti indagini nelle quali era stato coinvolto». In realtà i soldi che venivano versati dai soggetti ricattati finivano su carte di pagamento collegate al sito e a soggetti prestanome e davano così l’impressione alla persona offesa, che stava acquistando bitcoin, di acquistarli davvero. Ma la catena non era finita lì. Da quei conti correnti i soldi finivano presso altre carte di pagamento intestate a conti correnti in Italia e da qui bonificati ad un conto corrente in Germania di una società di bitcoin, presso la quale i bitcoin stessi risultavano oggettivamente acquistati, per poi finire in un portafoglio virtuale che era presumibilmente nella disponibilità dei truffatori. Sul punto, però, le indagini sono ancora in corso.
«Con il decreto legislativo 25 maggio 2017 n. 90, che recepisce nel nostro ordinamento quanto il legislatore comunitario aveva disposto due anni fa in merito alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo – chiosa Scibetta – è stato fatto un grande passo in avanti. Manca adesso il passo ulteriore, vale a dire l’obbligo di registrazione e segnalazione di operazioni sospette da parte di chi riceve ordini di pagamento o versamenti in bitcoin».