la Repubblica, 29 settembre 2017
La sindrome di Carletto, dai trionfi alla burrasca
Il bilancio di Carlo Ancelotti dal 2009, da quando ha lasciato il Milan e l’Italia per diventare l’allenatore più importante al mondo insieme a Guardiola e Mourinho, è il seguente: una Champions, un Mondiale per club, una Supercoppa europea e una Copa del Rey col Real, una Premier e una Coppa d’Inghilterra col Chelsea, una Ligue 1 col Psg, una Bundesliga e due Supercoppe tedesche col Bayern, ma anche tre licenziamenti in tronco a Londra, Madrid e Monaco, e una fuga da Parigi che fece infuriare Nasser Al Khelaifi. Carlo vince le coppe (meno di quanto potrebbe i campionati, perché lui «preferisce la coppa» come da famosa biografia scritta con Alessandro Alciato), ma le sue avventure all’estero finiscono sempre in modo traumatico, mai alla naturale scadenza del contratto. È accaduto dopo due anni con Abramovich al Chelsea e con Florentino Perez al Madrid, al Bayern invece dopo quindici mesi. Dal Psg scappò lui, dopo un anno e mezzo, per raccogliere la chiamata del Real Madrid, infatti Al Khelaifi non lo voleva liberare, e i due hanno fatto pace solo da poco. Dopo un po’, ad Ancelotti rimproverano le stesse cose che in principio sono considerate i suoi punti di forza: il rapporto umano che instaura con i giocatori, che spesso crea surplus di rendimento come nel caso di Cristiano Ronaldo (che lo ama), diventa nei periodi di crisi una mancanza di severità, con gli atleti che sfuggirebbero al suo controllo. Dietro al tutto, l’ombra nera dei presidenti che ascoltano le spie interne messe al fianco di Carlo (accade spesso, chiedere per informazioni anche a Claudio Ranieri col Leicester) e infine lo fanno fuori, magari perché ci sono altri da mettere al suo posto. L’ultimo caso, dopo Abramovich e Perez, quello di Uli Hoeness, presidente del Bayern, ormai da mesi in urto con Rummenigge, che difendeva Ancelotti mentre Hoeness lo voleva fuori dai piedi, visto che Ancelotti non lo aveva scelto lui: ai tempi, il buon Uli era in carcere per frode fiscale. Però alla fine ha vinto Hoeness, e con lui i senatori. A Parigi, Robben si è andato a scaldare almeno 10 minuti dopo aver ricevuto l’ordine di farlo da Ancelotti, mentre in tribuna sono stati visti gli amici di Ribery esultare a ogni gol del Psg. La rivolta dei giocatori è un caso piuttosto unico nella storia professionale di Ancelotti: o non era proprio scattata la scintilla, o i metodi di Carlo stavolta non hanno funzionato.