Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2017
Concorsi universitari, solo 300 milioni anti-trucchi
A leggere i giornali di questi giorni non sembrerebbe, ma secondo le pagelle dell’Anvur, l’agenzia nazionale che valuta le università, Firenze non conosce rivali quando si tratta di mettere in organico nuovi docenti in area giuridica. Fra 2004 e 2010 è stata la migliore della sua categoria, e nel 2011-2014 si è piazzata al secondo posto.
Colpa delle cronache, «da non generalizzare» come spiegano i rettori alle prese con l’ennesima variante di “concorsopoli”, o degli indicatori che disegnano un mondo alternativo alla realtà? Caso per caso, la verità si trova in un diverso punto intermedio fra i due estremi. Ma le misure sbandierate negli anni per contrastare le selezioni truccate sembrano essersi fermate lontano dai risultati che promettevano.
Un po’ di storia, in breve. Nel 2010 la riforma targata Gelmini è arrivata all’indomani dell’ennesima ondata di polemiche, quella volta nata dalle inchieste sui concorsi a medicina a Bari. Oltre all’abilitazione nazionale, che ha provato a combattere le scelte pilotate sottraendo dal livello locale le decisioni iniziali sull’accesso alla cattedra, la riforma ha imbracciato l’arma dei soldi: le strutture che scelgono i migliori, ha promesso, saranno premiate con un aumento del finanziamento statale.
Il principio è chiaro, ma la sua realizzazione è stata più tortuosa. A parte i tre anni che hanno separato l’approvazione della norma dalla sua prima attuazione, il conto a oggi appare magro. Nel 2017, quinto anno di applicazione del meccanismo, la quota di fondi dedicata a questa voce continua a ballare intorno ai 300 milioni (307 per la precisione): in pratica, ogni 100 euro di finanziamento statale solo 4,4 vengono guidati dalla “qualità” del reclutamento. E non si tratta di «premi» in senso tecnico, perché i 307 milioni sono distribuiti fra tutti gli atenei. Ai migliori finisce la fetta più ampia, ma anche i peggiori ottengono qualcosa.
Quando si discute di qualità accademica, però, evocare «migliori» e «peggiori» è scivoloso, soprattutto fuori dalle aree scientifiche guidate dalle tecniche bibliometriche internazionali. Per pesare il valore dei docenti, il processo di «valutazione della qualità della ricerca» (Vqr) mette sotto esame le loro pubblicazioni dei nuovi ingressi nei ruoli di ogni dipartimento confrontandoli con le medie di ogni area. Se i frutti della ricerca prodotta da chi comincia o avanza nella carriera all’interno di un dipartimento sono più brillanti rispetto alla media dell’area, significa che il “reclutamento” ha puntato sugli studiosi migliori.
Questo, appunto, in teoria, ma la pratica si è rivelata più complicata, perché gli indicatori sono materia delicata. I parametri utilizzati per giudicare la ricerca nei settori non bibliometrici sono al centro di polemiche infinite, e gli inciampi in cui è caduta la valutazione non aiutano a superare la classica altalena che guida il finanziamento universitario: si introducono novità annunciate come rivoluzionarie, che promettono di misurare i fondi in base a merito, risultati, efficienza e costi standard, ma si accompagna ogni cambio di regole con una clausola di salvaguardia che ne attenua gli effetti. Una dinamica inevitabile, peraltro, anche per non far saltare il banco in un quadro di finanziamenti in contrazione.
I fatti degli ultimi giorni, allora, riportano il dibattito sul terreno dell’etica. Mentre l’attenzione si allarga da Firenze a Napoli, dov’è indagato il rettore dell’Università Suor Orsola (il vicepresidente della Crui Lucio d’Alessandro) con l’accusa di aver favorito il figlio dell’ex ministro della Pubblica istruzione Ortensio Zecchino, la ministra dell’Università Valeria Fedeli annuncia per ottobre «un atto di indirizzo molto forte per le università, invitandole a dotarsi di regole sulla trasparenza», mentre il ministero «si riserva di costituirsi parte civile» nei processi che nasceranno dall’inchiesta di Firenze. In attesa di soluzioni più strutturate.