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 2017  settembre 01 Venerdì calendario

La scienza non ha risposte per tutto ma non usarla é stupido

Per incontrare il più celebre fisico italiano bisogna percorrere tutta la Costa Azzurra fino alle maestose e ripide calanche dove il 31 luglio 1944 si inabissò il Lockheed P-38 pilotato da Antoine de Saint-Exupéry in mssione di guerra. Carlo Rovelli vive da quindici anni a Cassis e insegna a Marsiglia, nel centro di fisica teorica più importante di Francia. Prima – per altri dieci anni – è stato ricercatore a Pittsburgh. Non male per un ragazzo di Verona che negli anni Settanta si iscrisse alla facoltà di fisica delFuniversità di Bologna per due motivi poco ortodossi: voleva rimandare il servizio militare e non era potuto partire per un viaggio stile “vagabondo del Dharma” per guai con la legge: «Hanno trovato della droga sulla Vespa che avevo prestato a un amico», spiega nel soggiorno del suo luminoso appartamento con vista sulle calanche.
Da qui a Verona ci sono oltre seicento chilometri, ma a parte la lontananza dal padre, cui è molto legato, non sente la mancanza dell’Italia. «A Cassis, tanto per cominciare, c’è un mare straordinario. Al mattino il pesce si può comprare al porto direttamente dai pescatori, che godono di un privilegio concesso da Luigi XIV e non pagano le tasse». Poi c’è il gruppo di ricerca sulla gravità quantistica che fa capo a lui, da dove arrivano continue conferme all’insegnamento del Piccolo Principe («L’essenziale è invisibile agli occhi»). Poi c’è la barca a vela. «Ci hanno detto che lei è anche un velista», chiediamo. «Velista è una parola grossa. Ho una barchetta d’epoca, di quasi cent’anni e con una sola vela. Ogni tanto esco a fare un giro. Il vento soffia nella vela e la barca si muove...».
Alla gravità quantistica Rovelli lavora da una vita, ma il suo nome è diventato noto grazie alle Sette brevi lezioni di fisica pubblicate da Adelphi tre anni fa: un best seller intemazionale tradotto in più di quaranta lingue. Ci mostra l’edizione in arabo, stampata in Egitto: «È quella con la copertina più bella di tutte. Gli arabi sono stati grandi astronomi, ma la tradizione si è persa».
Il successo delle Sette brevi lezioni è stato travolgente quanto inaspettato. Rovelli ricorda una discussione con il L direttore editoriale Roberto Calasso L se stampare tremila o cinquemila copie della prima edizione... Oggi A siamo già oltre il milione, mentre da qualche mese ha preso a scalare le classifiche il nuovo libro, L’ordine del tempo, che riprende e amplia il capitolo più affascinante del precedente. In fase di editing gli avevano chiesto di eliminare proprio la lezione sul tempo, ma lui ha tenuto duro. Rovelli è una persona abituata a tirare dritto con il sorriso, voltando le spalle al consenso. Nonostante il successo planetario è rimasto alla mano, in sandali e calzoni corti. Sopra il suo tavolo da lavoro è appeso un pannello che raffigura Corto Maltese mentre guarda il mare; in bagno c’è un’illustrazione con Albert Einstein che duetta con Marilyn Monroe. Modelli da tenere presenti.
Le Sette brevi lezioni di fìsica hanno riempito una doppia lacuna, nella divulgazione scientifica e nel giornalismo culturale. «Spesso nella divulgazione si tende a trattare il lettore come un bambino, invece sono partito dall’idea che non bisogna temere la complessità. Complessità e brevità non si escludono: alcune cose funzionano perché sono brevi, altre perché sono lunghe. La Recherche di Proust funziona proprio perché è lunga...». Accorciare senza semplificare, tagliare i dettagli mantenendo il cuore dei concetti; questo il metodo Rovelli che si manifesta nel più corposo L’ordine del tempo in una diversa prospettiva, più personale, al confine con la filosofia. «Non volevo scrivere un altro libro, ma mi era rimasto il desiderio di approfondire l’oggetto delle teorie a cui ho dedicato tutta la vita... Il tempo. Il mistero dei misteri».
A chiedersi che cosa sia il tempo e che cosa lo leghi indissolubilmente alla vita dell’uomo Rovelli c’è arrivato per gradi: «Mi sono iscritto a fisica svogliatamente, quasi per caso. In quegli anni a Bologna ho fatto parte del movimento studentesco, ma anche qui senza troppa convinzione. Non avevo obiettivi, a parte smettere di studiare e girare il mondo. A un certo punto l’ho fatto: sono andato in Canada e da lì sono partito per il classico coast to coast, fedele all’insegnamento di Einstein: “Se non perdi tempo, non vai da nessuna parte”...».
Una libreria del soggiorno conferma l’inclinazione al nomadismo; a insidiare la supremazia dei testi scientifici ci sono alcuni scaffali affollati dalle guide Lonely Planet, tendenza mete alternative: Yucatàn e Chiapas, Zimbawe, Botswana e Namibia, South India e Kerala...
I fisici non sono un po’ i vagabondi della scienza? «Sì5> è vero. Un po’ vagabondi e un po’ santoni indiani capaci di rivelare il segreto dell’universo, non si capisce bene se riuscendoci o no...».
A forza di perdere tempo, Rovelli il tempo se lo è trovato davanti negli anni Ottanta, quando si è appassionato alle più recenti teorie sulla gravità quantistica. E si è messo a inseguirlo. «Ho deciso di dedicare la mia vita allo spaziotempo.
Su questo tema ho dato la tesi, pur senza riscuotere un grande interesse tra i miei professori. L’Italia ha una tradizione importante, quella di Fermi e Arnaldi, ma è lentissima a intercettare il nuovo. E la politica ha deciso di disinvestire sull’università e sulla ricerca, mentre negli Stati Uniti intercettano da tutto il mondo i talenti più innovativi...»
Oggi di uscire in barca non se ne parla, neanche un alito di vento. In fuga dalla canicule dell’anticiclone africano, ci spostiamo sul terrazzo popolato da piante raccolte in germoglio durante i viaggi («Vado particolarmente fiero di questo baobab»); c’è anche una tavola da pranzo molto francese, tra la tovaglia bianco-azzurra, un apribottiglie con il manico a forma di delfino, una bottiglia del celebrato vino bianco di Cassis in versione biologica. Dalla teglia appena uscita dal forno ci guardano i grandi occhi dei pesci rovelli – uno dei nomi comuni del pagellus bogaraveo – quanto di meglio offrivano stamane i pescatori.
Carlo ride per lo strano caso di omonimia – rovelli a colazione – e comincia a ripercorrere le tappe di una carriera fatta quasi tutta all’estero, vittima delle logiche accademiche italiane. Gli episodi significativi in negativo sono surreali, potrebbero intitolarsi “Due brevi lezioni di patafisica”, e hanno a che fare con l’inutile attesa (il tempo, ancora lui). Dopo il dottorato di ricerca, ottiene una borsa di studio alPInfn (Instituto nazionale di fisica nucleare) e sceglie di andare al dipartimento di Roma. Finisce in uno scantinato da cui può osservare, attraverso una finestrella, le scarpe dei passanti, come nel film Bianca di Nanni Moretti. Per un paio d’anni lo ignorano tutti. Lavora intanto con i colleghi americani. Finché il presidente dell’istituto Nicola Cabibbo sente parlare di lui negli Stati Uniti e quando toma a Roma chiede se al dipartimento di fisica esista un certo Carlo Rovelli. Lo convoca e gli offre un posto all’Infn, ma qualche tempo dopo si rimangia tutto: «“Mi ricandido alla presidenza e ho bisogno dei voti. Ci sono quelli del Gran Sasso che hanno bisogno di questo posto e gliel’ho venduto”. Ho apprezzato la sua schiettezza», dice Rovelli, «e, oltre a una grande stima scientifica, siamo rimasti amici».
Dopo tre anni trascorsi a osservare i piedi dei passanti dalla finestrella, l’uomo del sottosuolo viene chiamato a Pittsburgh, «dove c’è un istituto di fisica all’avanguardia, ma anche uno straordinario centro di filosofia della scienza. Sono stati dieci anni bellissimi, ma alla fine avevo voglia di tornare in Italia, così ho partecipato a un concorso per una cattedra e l’ho vinto. Il dipartimento di Fisica dell’università di Roma ha votato la mia chiamata, e ho aspettato la nomina, che però non è mai arrivata: “Ti dispiace se aspettiamo un anno?, “Ti dispiace se aspettiamo un altro anno?”... E a forza di aspettare, mi hanno chiamato dalla Francia. Niente di personale: questo è il metodo classico dell’università italiana. Carlo Rubbia, dopo avere vinto il Nobel per la fisica, sarebbe tornato volentieri a insegnare a Roma, ma gli hanno risposto che per il momento doveva accontentarsi di una cattedra a Bari. Ed è rimasto a Harvard».
Parliamo ancora dell’Italia, del movimento no vax e dell’atteggiamento anti-scientifico che sembra essersi rafforzato grazie a internet. Rovelli ha idee molto chiare in proposito, ma vuole trovare le parole giuste e teme sempre di essere strumentalizzato, tirato per la giacca come si dice, anche se non è il tipo da giacca. «La scienza non ha la risposta giusta a tutte le domande. Non è oracolare. Talvolta è discutibile. Però è uno strumento. E non usare uno strumento è una sciocchezza. Oggi subisce attacchi da molte direzioni, anche da chi ritiene che ogni opinione si equivalga e ogni tradizione sia egualmente valida. Ma se il clima della Terra si surriscalda non si decide a maggioranza. Se ho la polmonite, posso scegliere di guarire o no, è legittimo. Ma se voglio guarire, prendere la penicillina è meglio che recitare una formula magica. La scelta su quale sia la decisione più efficace a volte non è semplice, però la società funziona se abbiamo fiducia gli uni negli altri e nelle istituzioni. Va bene dubitare e suscitare problemi. Ma non è vero che si può capire da sé quali siano le scelte migliori». Per quanto riguarda i vaccini, Rovelli individua una sorta di mentalità all’italiana: «I vaccini hanno salvato il mondo da mali terribili e funzionano solo se vengono presi in massa. La relazione con l’autismo è falsa, dire che sono dannosi è sputare in faccia a chi ci ha salvato. È ovvio che conservano un minimo grado di controindicazioni, come qualsiasi cosa, anche l’aspirina... In astratto, la soluzione ideale potrebbe essere che si vaccinino tutti, meno i miei figli. Ma è egoismo spacciato per libertà di scelta. Detto questo, restano una serie di questioni irrisolte. Abbiamo reso obbligatorio questo vaccino e quell’altro... Siamo sicuri che siano tutti necessari? Qualcuno dice: forse dobbiamo ridiscutere su quali vaccini siano da rendere obbligatori. Può avere ragione. Non tutti gli Stati del mondo rendono obbligatori gli stessi vaccini. Il tema è complesso...».
Sulla tavola compaiono una grande caffettiera e un gelato alla vaniglia, insieme alla spesa ordinata online alla Auchan. In Charles Rovelli, come lo chiamano i francesi, abbiamo notato un moderato entusiasmo per il digitale, e lui non smentisce la nostra impressione. Sostiene che la rivoluzione digitale sia sopravvalutata, che l’elettricità, l’acqua corrente e il trattore hanno cambiato la vita dell’uomo in modo ben più profondo: «La vera rivoluzione è stata il trattore, perché si è passati da una situazione in cui 95 persone dovevano lavorare la terra affinché le altre cinque si potessero occupare di tutto il resto, a una in cui due persone lavorano la terra affinché le altre possano fare tutto il resto. Per secoli la storia è stata fatta da un piccolo gruppo di persone che scrivevano libri e dichiaravano la guerra perché gli altri stavano zappando la terra...».
Dalla parte opposta del terrazzo rispetto all’amaca del riposo c’è una lavagna riempita di formule matematiche. Riguardano un enigma su cui il suo gruppo di Marsiglia si arrovella (è il caso di dirlo). Che accade a una stella, quando viene inghiottita di un buco nero? La materia inghiottita da un buco nero può anche uscirne? E in quale stato? «Il tempo è un concetto relativo non solo dal punto di vista psicologico. Più ci avviciniamo a un buco nero, più osserviamo la gravità aumentare, e il tempo rallentare. Faccio un esempio, se ora andassi in un’altra stanza per cinque minuti, e in quella stanza ci fosse un buco nero, i miei cinque minuti sarebbero durati anni, per voi che mi avete aspettato qui...».
Quello che è stato scoperto sul tempo, e quello che verrà scoperto negli anni a venire, cambierà la nostra percezione dell’universo? «Difficile dirlo adesso, penso però che, come tutti i grandi cambiamenti concettuali di cui è fatta la storia della scienza, anche questo avrà degli effetti notevoli sul nostro modo di pensare, e non solo. Da Copernico in poi, la realtà è diventata più chiara quando abbiamo ribaltato la prospettiva da cui ci appariva. La Terra non è piatta ma sferica, il Sole non gira intorno al nostre pianeta ma accade il contrario. Dopc Einstein, sappiamo anche che il tempo è un rapporto soggettivo dell’uomo con la realtà e non un valore assoluto. Ci rendiamo conto che il tempo non è un monolite immobile, ma una gelatina variabile che nasce dalle relazioni tra noi e il mondo. Non siamo monadi, ma soggetti interconnessi in una rete infinitesimale di relazioni: questa mi sembra per ora la lezione che possiamo trarre dalle scoperte sul tempo».
Universi paralleli, forme di vita aliena, frontiere delle ncuroscienze... Già negli anni Sessanta, Frutterò & Lucentini sostenevano che dopo la quantistica era diventato impossibile distinguere tra scienza e fantascienza; oggi i libri di Carlo Rovelli hanno, tra gli altri meriti, quello di avere svelato il cuore avventuroso – e poetico – della fisica.
Corto Maltese sarebbe orgoglioso di lui. Ma in tutto ciò, come direbbe Vasco Rossi, la fisica vuole trovare un senso a questo universo, anche se questo universo un senso non ce l’ha? «La fisica non si pone il problema del senso. Ma gli esseri umani naturalmente sì, e allora posso dirvi che cosa penso io. Il problema del senso lo sento assai profondamente, e mi sembra di avvertire una fortissima quantità di senso che proviene da me, ma anche dai miei simili: siamo noi a desiderare le cose, siamo infatti macchine che producono senso... Noi esseri umani storicamente abbiamo sempre pensato che il senso delle cose debba provenire dall’alto. Ma perché? Viene da noi, quindi viene da dentro. Anche se poi, naturalmente, questo non è tutto...».
Davanti alla lavagna piena di formule sul terrazzo c’è sempre il mare blu cobalto di Cassis. «Non ho mai dimenticato il passo di una lettera scritta in tarda età da Isaac Newton, il più grande scienziato di sempre. Non so come la mia opera apparirà ai posteri, dice. A me sembra di essere stato un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso o una conchiglia più bella del solito, mentre l’oceano della verità giaceva insondato davanti a me».