la Repubblica, 27 settembre 2017
L’università senza merito
Per dirla con il filosofo Giulio Giorello «più che cambiare il sistema dei concorsi bisognerebbe cambiare la mentalità, che mi sembra malata». Fa da sfondo, la sua osservazione sull’ultimo scandalo dei concorsi pilotati scoppiato nel settore del diritto tributario, alle falle di un sistema universitario che non sembra proprio riuscire a selezionare i migliori. Nonostante le riforme e le controriforme.
«Non esiste un sistema perfetto, ma tra il sistema ideale e la corruzione ci sono molte vie di mezzo, c’è un’area grigia dove è difficile distinguere tra il dolo e una comunità accademica che seleziona», ragiona il sociologo Marino Regini, ex prorettore della Statale di Milano, che ha appena pubblicato il volume “Salvare l’università italiana”. L’autonomia concessa agli atenei senza responsabilità e controllo sui risultati, il sistema delle abilitazioni dove talvolta a giudicare sono docenti con meno titoli dei candidati, il nodo dei concorsi a livello locale, le scarse risorse. Punto per punto, ecco dove il sistema di reclutamento s’inceppa.
AUTONOMIA E RISULTATI
Il punto più debole? Non ha dubbi Regini: «È stata concessa l’autonomia agli atenei senza richiedere loro di stabilire obiettivi e realizzarli, come avviene in Francia dove c’è un sistema di contrattazione con le singole università. Da noi il ministero mette vincoli e controlla che siano rispettati, ma non c’è alcuna attenzione al risultato». Regini suggerisce una sorta di patto su cosa una università sa fare meglio tra la ricerca d’eccellenza, la formazione permanente o l’aiuto allo sviluppo del territorio. «Stabilisci gli obiettivi e in questo modo costringi i singoli atenei a scegliersi i migliori per raggiungerli. L’ennesima riforma dei concorsi non serve se dietro non c’è un sistema centrale con la forza politica e le capacità di lavorare a stretto contatto con i singoli atenei».
ABILITAZIONI OPACHE
È una sorta di patentino introdotto dalla legge Gelmini proprio per sottrarre terreno al potere discrezionale e al nepotismo: le abilitazioni scientifiche nazionali. Ci sono anche nel sistema tedesco. Si viene giudicati solo in base ai titoli, senza considerare l’attività didattica. Un attestato, sulle capacità per diventare professore associato o ordinario, che dura sei anni. Una commissione di cinque docenti ordinari della disciplina, scelti su precisi requisiti, giudica i candidati. Non ci devono essere vincoli di parentela, piaga ricorrente in passato. Ma l’ostacolo viene comunque aggirato al momento delle chiamate in cattedra: basta non entrare nello stesso dipartimento del familiare. L’Asn è comunque stata una novità salutata con favore. Ma poi ci sono stati docenti che hanno truccato il curriculum per entrare nelle commissioni o è accaduto, come all’ultima abilitazione in Geografia, che un bocciato avesse più titoli dei commissari. Storture. E poi le abilitazioni che dovevano uscire ogni anno dal 2010 sono state solo tre. Nella prima tornata, nel 2012, i promossi sono stati il 43% (24.294 su 56.539 domande), con tassi di abilitazione variabili dal 37% di Scienze politiche al 62% di Scienze agrarie e veterinarie. Una variabilità contestata: «Regole poco chiare». Dice Federico Bertoni, docente di letteratura autore del libro “Universitaly”: «Troppo potere decisionale concentrato in poche mani sulle abilitazioni. Lo spirito della legge Gelmini è un combinato di verticismo e precariato». Molto è migliorato, dice il rapporto Anvur 2016. Ed è stato così. Ma «ciò non ha impedito che in alcune aree si presentassero all’abilitazione candidati con valutazione Vqr, (sulla ricerca, ndr), pari a zero», l’11,8% nell’area medica, per esempio.
L’IMBUTO DEI CONCORSI
Sono gli atenei a chiamare gli abilitati con due tipologie di concorsi: per esterni e per “scorrimenti” interni (in via di esaurimento). E qui c’è un imbuto, dove possono ricrearsi vecchie logiche. Da novembre 2013 a marzo 2015 sono stati 3.204 i posti messi a concorso, il 50% su bandi per personale interno. «Qui sta il punto debole: non sono stati eliminati i concorsi, mentre l’università dovrebbe agire per cooptazione alla luce del sole: scelgo e se prendo uno scarso ne va della mia reputazione e dei fondi che ricevo», dichiara Dario Braga, chimico, ex prorettore alla ricerca di Bologna. Avviene così nel mondo anglosassone. «Da noi dove casca l’asino? È che i concorsi danno una copertura formale alle impudicizie. Questo sistema di cooptazione mascherato da concorso non funziona».
POTENTATI E RICATTI
A partire dal 2009 ad oggi il personale universitario è calato di circa il 22%. Visto da chi è fuori – 20mila precari della ricerca, tra assegnisti e ricercatori a tempo determinato; più circa 25mila docenti a contratto – questo è il problema: la mancanza di cattedre. «Di fatto ci sono stati anni in cui il reclutamento non c’è stato – osserva Mauro Roncarelli, astrofisico, una delle voci della Rete dei precari della ricerca e della didattica – Non immettendo personale nuovo cristallizzi la situazione che c’è. Non è così tutta l’università, ma negli ambienti dominati dai baroni se ci sono pochi posti non c’è spazio per qualcuno che non sia parte di quel potentato. Ci vogliono più risorse, più posti. Altrimenti restringendo la parte tutelata e aumentando i precari si fa solo crescere il potere di ricatto».