Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  settembre 26 Martedì calendario

Il Kurdistan di Barzani e la sfida dei Peshmerga contro tutti i vicini

ERBIL (KURDISTAN IRACHENO) Al di sopra dei balletti in circolo nei giardini di Baghi Shar, sotto l’antica cittadella di Erbil, come sulle vetrine del bazar, e persino sui finestrini delle auto ammassate senza ordine accanto ai seggi elettorali, o in corsa nel concerto di clacson, accanto alla bandiera tricolore con il sole c’è sempre il sorriso di Masoud Barzani, con l’eterna kefiah a quadri bianchi e rossi. Il referendum è la sua scommessa, l’indipendenza del Kurdistan la missione della sua vita. E potrebbe davvero essere a portata di mano.
Non fa nulla se i vicini schiumano di rabbia, se Ankara ferma la collaborazione militare e censura le tv curde, se Teheran chiude il suo spazio aereo ai voli per Erbil. Non importa se Bagdad minaccia fuoco e fiamme e chiede al governo regionale curdo di affidarle il controllo dei posti di frontiera, aeroporti compresi. I moniti degli amici e le minacce degli avversari non hanno fermato il presidente, perché se vuole realizzare il sogno che era di suo padre Mustafà il momento è ora.
Chi cerca indicazioni del destino, sottolinea che Barzani è nato nel 1946, in quella che gli storici chiamano la repubblica di Mahabad, oggi territorio iraniano. Uno staterello durato meno di un anno, ma che già era un abbozzo di patria curda. Al di là delle origini, la sua è stata una carriera quasi obbligata, dall’addio alla scuola per abbracciare le armi a soli 16 anni, fino alla guida del clan più potente.
Per i critici, che non sono pochi, la sua gestione del potere è stata cinica e poco corretta. Chi attacca la sua famiglia rischia di finire come il giovane giornalista Sardasht Osman, trovato ammanettato in un fosso con due proiettili in testa nel 2010. Ma anche i più accaniti ammettono: è difficile gestire in modo trasparente un Paese non riconosciuto. I proventi del petrolio sono controllati dal governo regionale, cioè dal suo partito. Ma pure chi accusa Barzani di favorire apertamente i membri del clan, distribuendo loro cariche e finanziamenti, riconosce che con tutta probabilità una grossa fetta di risorse è stata dedicata – in modo ovviamente nascosto – a preparare il Kurdistan per l’indipendenza, contemplando anche l’ipotesi di un possibile scontro con Bagdad.
La via del referendum è stata quasi obbligata, ma la scelta nazionalista ha costretto anche gli avversari a seguire il presidente. E se il risultato non era in dubbio, il dato sull’affluenza (oltre il 76 per cento a un’ora dalla chiusura delle urne) conferma che i curdi sono stanchi di aspettare. Quello che è sicuro è che ora nessuno, in Occidente, potrà accusare il presidente di doppiezza. Nessuno, nelle cancellerie europee come oltre Atlantico, potrà sostenere di aver armato i curdi contro lo Stato islamico e non aver pensato al dopo. Già qualche anno fa, Time magazine, che ne stava valutando la candidatura come “uomo dell’anno”, ha definito Masoud Barzani “l’opportunista”. E mentre l’Europa riempiva gli arsenali di Barzani, per fermare lo Stato Islamico, la stampa tedesca ironizzava scrivendo che le armi spedite a Erbil «avrebbero dovuto portare una data di scadenza molto vicina», così da non mettere in discussione, dopo la fine di Al Baghdadi, gli equilibri del Medio Oriente.
Fra gli elettori di Erbil che mostrano orgogliosi il dito indice macchiato d’inchiostro, a identificare chi ha votato, è difficile sfuggire all’impressione che le reazioni internazionali negative siano quasi un gioco delle parti. Dopo tutto l’amicizia fra Barzani ed Erdogan è ben collaudata, e la Turchia, pur scontenta del referendum, è sempre il principale partner commerciale e grande acquirente del petrolio estratto in Kurdistan. Persino la rabbia di Bagdad, inevitabile, appare forzata: mentre il premier iracheno Haider Al Abadi minaccia, le sue truppe stanziate nel nord Iraq si stanno mettendo d’accordo con i Peshmerga in vista della battaglia di Hawija, che ancora deve essere liberata dalle mani dei jihadisti. E fra gli accordi c’è anche quello secondo cui i militari curdi non dovranno poi retrocedere dalle posizioni conquistate sul campo.
È vero, la scommessa non è ancora vinta. A Kirkuk la tensione è alta, la polizia e le autorità curde hanno decretato il coprifuoco in certe zone della città, per evitare provocazioni. A Tuz Khurmatu, altra area contesa, qualche miliziano sciita di Hashd al Shaabi ha sparato su una pattuglia di Peshmerga, appena rientrati dopo aver votato. Ma la reazione è pacata, i curdi non propongono rappresaglie ma chiedono solo che il responsabile sia punito. Questa è la linea di Barzani, la strategia di una scommessa avviata con toni tranquilli ma decisi: «È forse un crimine chiedere alla nostra gente che si pronunci su quello che vuole per il futuro?», si è chiesto il presidente in un’intervista al Guardian. L’indipendenza è il futuro, sottolinea Barzani, seguito dal coro dei suoi. Insomma, per la proclamazione di indipendenza del Kurdistan si può ancora aspettare. Ma non per molto.