Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2017
Il momento sbagliato per litigare con Rohani
Bisogna ammetterlo, c’è una vena di follia oggi nella politica internazionale. Quando emerge nei leader che hanno formidabili armamenti il mondo giustamente trema perché un conflitto su larga scala può andare fuori controllo e mettere a rischio milioni di vite. Ma quando alla follia si aggiunge la stupidità c’è da temere ancor di più: è il caso del leader nordcoreano Kim Jong-un che per strappare concessioni agli Usa sembra voler trascinare la situazione fin sul baratro del conflitto.
La prova nordcoreana sta portando il presidente americano sull’orlo di una crisi di nervi. Lo dimostra il caso iraniano, dove Trump ha aperto un nuovo fronte per rimettere sanzioni a Teheran denunciando un accordo sul nucleare, del luglio 2015, che non è tra Washington e Teheran ma un’intesa internazionale denominata appunto Cinque più Uno e sancita dall’Onu.
Frustrato dagli insuccessi sul versante asiatico e su quello mediorientale, Trump sta dividendo lo stesso schieramento di alleati europei e Nato che non hanno nessuna intenzione di aprire un fronte con gli ayatollah. Ci sono interessi economici in ballo ma soprattutto è in corso il tentativo di stabilizzare una regione dove al conflitto con l’Isis se ne affiancano altri con imprevedibili conseguenze.
Non è questo il momento di litigare con l’Iran e Trump non lo ha capito. Ma è comprensibile che gli americani siano nervosi. Non gli obbedisce più nessuno. La Turchia ha ordinato alla Russia i missili S-400: vedremo se arriveranno davvero, visto che Mosca non li ha consegnati ancora neppure agli alleati iraniani, ma è evidente che Erdogan sta mettendo alle corde la Nato e i rapporti con gli Usa. Dopo aver perso la battaglia per abbattere Bashar Assad, Washington rischia di perdere anche il controllo sulla Turchia, che in ogni caso si è messa d’accordo con Putin e Iran per far restare Assad al suo posto e proteggere in confini turchi dagli effetti dell’irredentismo curdo.
Non solo. Sta fallendo il tentativo degli americani e dei loro alleati, in primo luogo gli israeliani, di interrompere il “corridoio sciita” che dall’Iran attraverso Iraq e Siria rifornisce le milizie libanesi Hezbollah. Se il conflitto in Siria è stato anche una guerra per procura contro l’influenza di Teheran, l’attacco di Trump all’Iran sull’atomica è mosso anche da queste considerazioni. Dopo aver abbattuto i talebani in Afghanistan nel 2001 e Saddam nel 2003, gli Usa hanno fatto un altro regalo a Teheran che oggi può contare sull’Iraq, sulla Siria, sulla Russia e su una Turchia “addomesticata”.
Persino i curdi danno agli americani dispiaceri. Quelli siriani si stanno dimostrando ottimi alleati nell’assedio di Raqqa, capitale del Califfato, ma i curdi iracheni stanno andando per conto loro e Massud Barzani ha indetto il 25 il referendum sull’indipendenza. Brett McGurk, inviato Usa in Medio Oriente, lo ha definito «provocatorio e destabilizzante e senza prospettive di legittimità internazionale» perché in realtà avvicina ancora di più Iran, Iraq e Turchia. Ma non è con una crisi di nervi alla Casa Bianca che si risolvono la questione mediorientale e quella nordcoreana.