Corriere della Sera, 25 settembre 2017
Una legge elettorale che non sia fatta per i partiti
La presentazione da parte del Pd di una nuova proposta di legge elettorale se da un lato va vista con favore perché può finalmente sbloccare l’ impasse creato dalle sentenze della Consulta, dall’altro va giudicata negativamente perché non risolve né il problema della governabilità, né quello della rappresentatività del Parlamento. Se non rinuncerà ai capilista bloccati, la proposta del Pd non potrà rispondere all’esigenza di ridare ai cittadini il potere di eleggere i propri rappresentanti, ponendo fine al paradosso – unico al mondo – di una democrazia rappresentativa fondata su di un Parlamento di «nominati».
Anche se a malincuore, occorre sottolineare che l’attuale proposta non appare sufficiente a garantire quella governabilità che in presenza di un assetto multipolare del sistema partitico, e in assenza di una legge elettorale realmente maggioritaria, può essere assicurata solo da un premio alla coalizione vincente. Nell’attuale assetto multipolare del nostro sistema partitico, il sistema elettorale misto proporzionale-maggioritario proposto dal Pd – impropriamente qualificato come una modifica del Mattarellum dal quale differisce invece in maniera decisa – non garantisce infatti la formazione di una maggioranza di governo. Il Mattarellum, malgrado la frammentazione partitica e il trasformismo incoraggiati dal collegio uninominale, prevedendo una componente maggioritaria ben più rilevante offriva almeno una concreta possibilità di produrre una maggioranza di governo, anche se pur sempre su base coalizionale.
A questo difetto si accompagna inoltre il permanere della vera ragione che ha reso così difficile superare la legge risultante dalla sentenza della Corte (il cosiddetto Consultellum): le capolisture bloccate, che assicurano ai leader dei quattro maggiori partiti il controllo assoluto dei propri gruppi parlamentari. Dal punto di vista della rappresentatività la proposta del Pd è così persino peggiore del Consultellum, in quanto permetterebbe a Renzi, Grillo, Berlusconi e Salvini di nominare i propri fedeli nei collegi più sicuri del maggioritario, ed inoltre anche 100 capilista, riducendo così il numero degli eletti con il voto di preferenza con una ulteriore perdita di rappresentatività del Parlamento.
I numeri non lasciano dubbi: anche ipotizzando che molti voti vadano dispersi su liste che non superino la soglia del 3%, una lista che conseguisse il 30% dei voti non otterrebbe nella quota proporzionale più di 110-115 deputati. Al netto dei capilista scelti dal vertice, solo 10-15 deputati verrebbero eletti dai cittadini con il voto di preferenza. Considerando che solo due partiti – PD e M5S – hanno la possibilità di eleggere più di 100 deputati, è evidente che solo 20-30 deputati e cioè solo il 5% del Parlamento sarà eletto dai cittadini. Se a questo si aggiunge che il vertice dei partiti avrà la possibilità di «paracadutare» i propri fedeli nei collegi sicuri della quota maggioritaria, ne risulta che solo pochissimi seggi saranno in effetti contendibili, e che le minoranze di tutti i partiti verranno estromesse dalla rappresentanza. È proprio questo aspetto che rende la proposta del Pd appetibile per i maggiori partiti, compresi quelli – come l’M5S – che non la approveranno; ma è proprio questo aspetto che rende la proposta infausta dal punto di vista sistemico. Si aggiunga che mentre in un sistema tendenzialmente bipolare il collegio uninominale si adatta pienamente ed anzi rafforza l’assetto bipolare, in un sistema multipolare e frammentato il maggioritario uninominale incoraggia la formazione a livello di collegio di desistenze e alleanze atipiche necessarie per la vittoria ma inevitabilmente causa di trasformismo. Aspetto quest’ultimo di cui la nostra cultura non ha certo bisogno.
Se la proposta non assicura né governabilità né rappresentatività, ed ha anzi – specie in assenza di norme attuative dell’art. 49 della Costituzione – un effetto negativo sul sistema partitico rafforzando la tendenza verso partiti personali, solo l’interesse degli attuali leader spiega la sua probabile approvazione. Tra la quasi certezza che nelle prossime elezioni essa non produca una maggioranza di governo, e la possibilità per Berlusconi, Grillo, Renzi e Salvini di nominare ciascuno la quasi totalità dei propri deputati e senatori, e di rendersi così assoluti e permanenti padroni dei rispettivi gruppi parlamentari, i nostri quattro «signori della guerra» si accingono ancora una volta a scegliere il proprio interesse particolare rispetto all’interesse generale di dar vita ad una legge elettorale che permetta la governabilità ed assicuri una adeguata rappresentanza. Per anni la qualità della nostra classe politica è venuta progressivamente declinando. Ma mai si era giunti a questo drammatico livello in cui gli interessi dei vertici di partito predominano così apertamente sino a ledere i principi fondanti della democrazia rappresentativa. Possiamo solo sperare che il quadro della politica e dell’economia internazionali non impongano troppe decisioni difficili. Un Paese senza governo o con maggioranze fragili, e con istituzioni delegittimate – come il nostro rischia di essere dopo le prossime elezioni – correrebbe seri rischi di tenuta sia economica che democratica.