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 2017  settembre 25 Lunedì calendario

Iraq, la paura della capitale del petrolio. «Il voto dei curdi deciderà il futuro del Paese»

KIRKUK (NORD IRAQ) «Peshmerga è il vento che scuote la bandiera curda», si legge sul basamento della statua, oltre venti metri di guerriero con kefiah attorno al collo e kalashnikov sulla spalla, eretta nel luglio scorso per celebrare il coraggio di chi, come dice il nome, «affronta la morte». Piazzata all’ingresso di Kirkuk, vale molto più di una dichiarazione politica: ricorda a tutti che solo la resistenza dei soldati curdi ha risparmiato alla città il destino di Mosul, cioè il giogo dello Stato islamico. E in tempi di referendum per l’indipendenza del Kurdistan, suggerisce che questa città e il suo petrolio devono far parte del nuovo Stato.
Oggi la zona curda dell’Iraq vota l’addio a Bagdad: 5,6 milioni di persone andranno alle urne per confermare che non hanno mai abbandonato il sogno di una nazione curda, quali che siano stati i tradimenti e le sofferenze. La delusione delle Potenze dopo la Grande guerra, la repressione selvaggia di Saddam Hussein, l’abbandono dell’Occidente: tutto questo era velato dall’eterna pazienza, ma è rimasto scolpito nella memoria. E ora il presidente Masoud Barzani dice che è arrivato il momento.
Lo fa con moderazione, sottolineando che è solo un primo passo, che il processo sarà lungo e ispirato al dialogo. Ma il cammino è cominciato.
Bagdad reagisce con nervosismo, promettendo «tutte le misure necessarie a salvare l’unità del Paese», ma nessuno crede che le truppe alleate per fronteggiare lo Stato islamico possano cominciare da un giorno all’altro a combattersi fra loro. Dai peshmerga filtra la notizia di una nutrita presenza militare americana al fronte, soprattutto nella zona di Kirkuk: con lo Stato islamico agonizzante, l’unico scopo possibile sembra quello di escludere possibili incidenti.
Così la scommessa di Barzani rischia di riuscire: ha forzato ogni limite costituzionale pretendendo riconferme fuori regola, ma è di fatto privo di opposizione. E in Medio Oriente la carta del nazionalismo funziona sempre. I partiti avversari non hanno avuto altra scelta che seguire il presidente nell’avventura indipendentista.
A poche ore dall’inizio del voto, il risultato è scontato: il “sì” richiesto dal governo dovrebbe ottenere una maggioranza straripante in tutto il Kurdistan. Ma che succederà nelle altre zone oggi controllate dai peshmerga? Su Mosul non c’è mai stato dubbio: i curdi non sono mai entrati, quel che resta della città è tornato sotto il controllo di Bagdad. Ma per Kirkuk e il suo sottosuolo sarà un’altra storia. Lo ricorda il cielo reso pesante da decine di raffinerie, lo dice la gente delle comunità non curde: turkmeni, arabi, cristiani. Barzani ha voluto far votare anche la gente delle zone a presenza mista, ma sulla carta il rischio di contrasti etnico-religiosi è alto. Tanto più che le milizie paramilitari sciite Hashd al Shaabi, controllate da Bagdad ma idealmente “vicine” a Teheran, sono appena fuori città.
Il viale d’ingresso è pieno di tricolori con il sole, la bandiera irachena si vede solo sui resti della cittadella. La parte monumentale è chiusa in attesa, dicono i soldati, di una grande festa. Nel bazar la vita e gli affari vanno avanti come al solito. Il muezzin di Nakhshli Mnara sta chiamando alla preghiera e i fedeli accelerano il passo fra banchi di mandorle, culle di legno artigianali, calzini e foulard. Dalla porta della macelleria, Ahmed si stupisce: «La moschea non è di una comunità, è il luogo sacro per tutti».
Said, commerciante turkmeno, non ha paura di quello che succederà, ma spera in Dio. Vende jeans ma anche veli islamici che – garantisce – sono comprati da donne di ogni origine. Il collega Abderrahim, arabo, proclama che non andrà a votare, perché tanto i governi – curdi o iracheni che siano – non servono a nulla, non fermano nemmeno i ladri d’auto.
Mullah Abdussalam ammette che il futuro del petrolio è un problema: «Ma non credo che potrà rendere rivali le nostre comunità, legate da tanti matrimoni incrociati». Anche Sheikh Atta rassicura: «Noi curdi siamo come i pomodori, andiamo d’accordo con tutti».
Nella sede del piccolo partito comunista curdo, Bakhtiar Mohamed ci tiene a ricordare che «ogni popolo ha diritto all’autodeterminazione». Su una parete all’ingresso Marx invita a cambiare il mondo. Ma per Safah, turkmeno di 27 anni, a Kirkuk non cambierà niente, ed è meglio così. «Le nostre comunità stanno bene assieme. Basta che non arrivi odio pianificato da altri».