D - la Repubblica, 16 settembre 2017
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Può capitare – è capitato a chi scrive – di trovarsi in un ristorante romano, e che il titolare s’avvicini con aria complice sussurrando: «Dotto’, ce li facciamo due spaghetti con i datteri di mare?». Certo, i datteri sono squisiti, come tanti altri mitili. Ma sono proibiti: per la legge del 1988, poi prorogata nel 1998 e confermata dal regolamento europeo del 2006 Misure di gestione per lo sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca nel Mar Mediterraneo che ha sancito il “divieto di raccolta, detenzione e commercio del dattero di mare”. La ragione è nota ai più: il Lithophaga lithophaga – traducibile in “Mangiapietra mangiapietra” – è un mollusco che si scava la casa nel calcare e, per tirarlo fuori, è necessario spaccare gli scogli con strumenti come il martello pneumatico, creando un enorme danno all’ambiente. «Per un chilo di datteri bisogna spaccare tra i 50 e i 100 chili di roccia», spiega Silvio Greco, docente di Sostenibilità ambientale all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, fondata da Slow Food. «Ci sono località italiane in cui sono venuti giù pezzi di costa a forza di sgretolare la pietra. In più, i datteri crescono molto lentamente, rischiano l’estinzione. E cambia poco se quelli che si trovano in giro vengono magari dalla Croazia: ne è vietata comunque la detenzione». Non basta la gravità della situazione per fermare alcuni ristoratori e, soprattutto, i peggiori gourmet: si sa, l’offerta segue la domanda. Ma bisogna farsene una ragione: per un’infinità di motivi – a partire dal fatto che oggi sediamo in 7 miliardi alla stessa tavola – ci sono cibi cui dobbiamo rinunciare e altri cui dovremo rinunciare presto. Sono talmente tante le specie vegetali e animali che non dovrebbe risultare impossibile resistere a divorarne qualche manciata. O a trovare soluzioni alternative: «Per i datteri si sta sperimentato l’allevamento in blocchi realizzati artificialmente, evitando così danni ambientali», dice Greco.
Eppure i golosi sono inarrestabili, il già citato regolamento europeo del 2006 proibisce la pesca di bianchetti e sardelle, il novellarne di sarda e alice, mentre consente quella di rossetti e cicerelli. Bianchetti e sardelle sono “cuccioli“di sarde e alici che diventerebbero molto più grandi. Ma in tante zone dell’Italia, soprattutto in Sicilia, Calabria e Puglia, si continuano a pescare. «Sottrarre i bianchetti al mare produce un danno giantesco», dice ancora Greco. «Quando nascono a gennaio, febbraio e marzo, cominciano a occupare un posto fondamentale nella parte iniziale della catena alimentare. Pescandone troppi, abbiamo creato un vuoto e la natura l’ha subito riempito: sono arrivate le meduse, che si sono inserite come “specie opportunista”. Se negli ultimi anni avete trovato il mare infestato di creaturine velenose è perché ci siamo mangiati tutti i bianchetti: in Francia hanno dovuto addirittura realizzare delle barriere per tenerle lontane».
In passato abbiamo avuto anche idee più eccentriche: fino agli anni ’70 andava per la maggiore il mosciame di delfino, il filetto essiccato di tradizione ligure (in Sicilia e Sardegna si fa ancora di tonno), ma molto spesso lo si spacciava per cervo. L’inserimento del delfino tra le specie protette non fermò la consuetudine; lo fece invece la paura della presenza di metalli pesanti velenosi in un animale così grosso.
Il problema naturalmente non riguarda solo le specie marine. Pensiamo alle rane, per esempio. 11 piatto tipico delle risaie, nel vercellese e nelle altre zone umide, sopravvive solo grazie alle importazioni e alle differenze normative tra i Paesi. Il numero di rane verdi è drasticamente sceso da quando in risaia s’è preso a usare insetticidi che uccidevano tutte le specie animali con cui venivano a contatto. Il risultato è che in Italia e in Europa la rana è protetta fin dalla convenzione di Berna del 1981 e ne è vietato l’allevamento in tutta l’Uc. Se ancora vi capiterà di mangiarle, con ogni probabilità arriveranno dalla Turchia o dal Sudest asiatico o dovrete considerarle una vera chicca: in Italia e ancora consentito raccogliere quelle selvatiche, ma non più di cinque chili al giorno, dunque non a sufficienza per soddisfare le esigenze dei grandi ristoranti.
Tornando al mare, il tonno rosso, come si sa, nel Mediterraneo ha rigorosissime quote di cattura fin dal regolamento del 2006 e in effetti si sono fatti grandi passi avanti nella ripopolazione, ma serve ancora tempo per far sì che raggiunga nuovamente le grandi taglie cui può arrivare la specie. Stessa sorte per il pesce spada.
«Non dovremmo più pescare nemmeno il merluzzo», dice ancora Greco. «Norvegia, Svezia, Lofoten e Canada ne stanne catturando tantissimo, visto il fiorente mercato di stoccafisso e baccalà, i due modi di conservare il pesce. Prima o poi lo finiranno. In realtà, dovremmo ridurre il consumo di pesce in generale, anche allevato: per pascere una spigola da un chilo, le diamo mangimi fatti con cinque chili di pesce selvatico. L’allevamento di pesci è una pratica unica nella storia della civiltà: fino agli anni ’70 del secolo passato l’uomo non aveva mai allevato predatori. La spigola, l’orata e il salmone lo sono: mangiano altri animali, non alghe».
L’elenco delle specie che non dovremmo consumare più è lungo e lo si può dedurre – in attesa di un intervento del legislatore – dalle Liste rosse realizzate dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (lucn), l’istituto di cui fanno parte mille tra Stati, agenzie governative, non governative e organizzazioni internazionali. La missione dello lucn è di “conservare l’integrità e la diversità della natura e di assicurare che ogni utilizzo delle risorse naturali sia equo ed ecologicamente sostenibile”. Le liste dividono le specie in otto categorie, che vanno da “Minor preoccupazione“a “Estinta”. Lo storione, per esempio, è “Estinto nella Regione”, ove per Regione s’intende l’Italia. “La presenza di dighe sui principali fiumi italiani impedisce il raggiungimento dei siti di riproduzione”. Ecco fatto: nel nostro paese non ce riè più uno da più di trentanni. Sono in “pericolo critico” (’anguilla e la lampreda. Sono vulnerabili la cernia, il camoscio appenninico, il capriolo italico – ma si sta velocemente ripopolando – e, attenzione, il tanto consigliato sgombro di cui dice la scheda lucn: “La specie ha un elevato interesse commerciale, fino agli anni 70 era considerato uno dei prodotti ittici più comuni. L’attività di pesca eccessiva e le variazioni ambientali hanno portato a una drastica riduzione della popolazione. Si sospetta un declino superiore del 30% nelle ultime tre generazioni”. «La verità è che il migliore prodotto marino per sostenibilità, salubrità e nutrizione sono i frutti di mare», dice ancora Greco. «Le vongole hanno 50 volte la vitamina B12 del pesce, le ostriche sono piene di oligoelementi. I mitili si allevano, purificano le acque e sono un’alternativa al pesce che in realtà è tutto in sofferenza. Li gente non li consuma molto perché ancora ha una paura irrazionale legata a pericoli come il colera: ma basta comprare prodotti controllati, come sul mercato lo sono tutti».
Poi esistono cibi che non mangiamo e non mangeremo per motivi emotivi o etici. Come i ricci di terra, che si cacciavano, si scuoiavano e finivano in ragù. «Anche l’istrice un tempo si cacciava e si mangiava abitualmente, ma oggi è proibito ed è uscito dalle nostre tavole», dice Alessandra Guidi, docente di Scienze Veterinarie all’Università di Pisa. Si mangia sempre meno il cavallo, «E anche il consumo di coniglio è in diminuzione: viene percepito sempre di piti come specie da compagnia», aggiunge Guidi. Non si mangerà più, plausibilmente, il foie gras di oche alimentate a forza con il metodo del giunge. «E le frattaglie sono in via d’estinzione. Le trippe resistono, ma stanno scomparendo i prodotti a base di sangue di maiale e le cervella: un tempo ricercatissime per nutrire i bambini, ancora patiscono la memoria della mucca pazza». «Il problema», conclude Greco, «è che noi siamo onnivori. E, tra i tanti difetti, abbiamo quello di desiderare ciò che è proibito. Tutto ciò che è vietato ci piace. E la nostra natura. I datteri, i bianchetti... sono come la droga: se c’è la domanda, l’offerta si organizza».