L’Economia, 25 settembre 2017
Grandi opere ferme. Cento miliardi per i prossimi anni: gli stanziamenti ci sono ma i cantieri non ripartono
C’é un pezzo che manca nella ripresa italiana. Ed è un pezzo importante perché, nella storia vicina e lontana del nostro Paese, è sempre stato capace di far girare da solo il vento dell’economia. Stavolta no. Stavolta il settore delle costruzioni è in controtendenza. Quest’anno il Pil, il prodotto interno lordo, dovrebbe far segnare una crescita dell’1,5%. Ma se abbassiamo la lente di ingrandimento sul quel pezzo mancante della ripresa ecco che torna il segno meno. L’ultima rilevazione è arrivata pochi giorni fa dall’Istat: a luglio la produzione nel settore delle costruzioni ha registrato un calo dello 0,4%.
Controtendenza, appunto. Ma perché?
Le risorse che (non) mancano
Per una volta non sono i soldi a mancare. Dopo la picchiata che ha segnato la fase più nera della recessione e la stagione dell’austerity, fatta di tagli alla spesa e stretta sui vincoli del patto di bilancio, la curva degli investimenti pubblici è tornata a salire in modo stabile. Con le ultime due manovre, i fondi messi a disposizione per i prossimi 15 anni e destinati a investimenti pubblici in infrastrutture materiali arrivano a 100 miliardi di euro. Un mese e mezzo fa il Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, ha finalmente approvato il contratto di programma dell’Anas: per il periodo 2016/2020 ci sono investimenti per 29,5 miliardi di euro. Una maxi dote ben superiore per volume alla prossima legge di Bilancio, anche se spalmata su più anni.
E di investimenti ce ne sono stati anche altri, come quelli per le ferrovie, oppure per la messa in sicurezza del territorio contro il dissesto idrogeologico, e ancora il piano per le periferie, il piano per la sicurezza delle scuole. Non sempre si tratta di soldi freschi, a volte si riciclano vecchi fondi non spesi. La sostanza, però, non cambia.
Le accuse al codice degli appalti
La benzina c’è, ma la macchina non è ancora capace di scaricare a terra tutta la sua potenza. Lo dimostra il numero delle ore lavorate nel settore delle costruzioni. L’anno scorso sono state poco meno di 272 milioni. Nel 2013, non un secolo fa, superavamo ancora quota 300 milioni. E rispetto al 2008, quando la Grande Crisi già c’era ma non avevamo ancora capito quanto grande fosse, il crollo è addirittura del 49%. Ma se la benzina c’è perché il motore non gira ancora come dovrebbe?
I costruttori, da tempo, puntano il dito contro il nuovo codice degli appalti. La riforma è entrata in vigore ormai da un anno e mezzo. Ha eliminato, come criterio per l’assegnazione delle gare, la regola del massimo ribasso che spesso apriva la strada a costose varianti in corso d’opera che facevano schizzare i prezzi reali in un secondo momento. E l’ha sostituito con un altro criterio, quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, dove vengono valutati sia i costi sia gli aspetti tecnici. Per questo gli appalti non possono più essere affidati sulla base dei cosiddetti progetti definitivi, quelli che servono per ottenere i permessi a costruire. Ma solo sulla base dei cosiddetti progetti esecutivi, molto più avanzati, perché entrano nei dettagli. Qual è stato l’impatto? All’inizio un certo «choc da innovazione» c’è stato. Nel primo mese di applicazione delle nuove regole, il maggio del 2016, l’Ance (l’Associazione nazionale dei costruttori) lamentava
un crollo del valore dei bandi di gara pubblicati del 75% rispetto a un anno prima. È vero che l’attuazione del codice, come accade sempre per le riforme in Italia, è stata particolarmente tormentata. Le correzioni sono state diverse, l’ultimo aggiustamento è di quattro mesi fa. Mentre sulle 60 linee guida affidate all’Autorità anticorruzione solo 15 sono state pubblicate. Ma lo choc da innovazione sembra ormai superato. Nel primo semestre 2017 il valore dei bandi è salito del 15% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Ma una cosa è pubblicare i bandi, un’altra aprire i cantieri. C’è un altro nodo, infatti.
I ricorsi delle imprese
A volte il problema sta a valle, con i ricorsi delle imprese che non hanno vinto l’appalto e che finiscono per bloccare l’intera procedura. Il fenomeno sta raggiungendo livelli preoccupanti. L’80% degli importi che riguardano le gare bandite dall’Anas tra il 2016 e il 2017 è bloccato proprio dai ricorsi. In tutto sono 3,7 miliardi di lavori fermi. Il caso più importante è la nuova autostrada tra Roma e Latina, con quasi 2,7 miliardi di opere bloccate. Ma c’è anche la variante del doppio ricorso incrociato: la linea ferrovia ad alta velocità tra Napoli e Bari prevede un investimento totale da 6,2 miliardi di euro. A marzo sono stati aggiudicati i primi due lotti, da 397 e da 312 milioni. Due i grandi raggruppamenti di imprese in corsa. Chi ha perso il primo lotto ha presentato ricorso contro il vincitore del primo e viceversa. Con il risultato che ancora adesso è tutto fermo.
A volte, poi, lo stop arriva ancora prima.
I cassetti vuoti nei Comuni
È il caso del piano nazionale contro il dissesto idrogeologico. Un finanziamento di quasi 10 miliardi spalmato su otto anni, un totale di 9.397 opere previste. Quelle già progettate, però, si fermano appena all’8%. «Abbiamo un ritardo clamoroso, che non ci fa dormire la notte», ha ammesso Erasmo D’Angelis, coordinatore della struttura costituita da Palazzo Chigi. Il punto è che i cassetti dei Comuni, ma anche dei provveditorati alle opere pubbliche e delle società di ingegneria, sono vuoti. Dopo anni di crollo degli investimenti, abbiamo quasi perso l’abitudine a progettare. Con un guaio in più.
La fuga dei commissari
È sempre più difficile trovare persone disposte a far parte delle commissioni che assegnano i lavori. Al ministero della Infrastrutture sono arrivate segnalazioni da tutta Italia. Ma il caso più clamoroso è quello del Comune di Roma, dove il direttore generale Franco Giampaoletti ha sottolineato la «frequente rinuncia alla nomina, adducendo motivazioni che spesso sconfinano nell’arbitrario». Il risultato è ancora una volta il blocco di opere che potrebbero partire, perché i soldi ci sono e i bandi pure.
Nella Capitale sono ancora fermi alcuni lavori legati al Giubileo, che nel frattempo è ampiamente finito, o la riqualificazione di Piazza Vittorio. Perché questa fuga?
Chi viene nominato non ha diritto a un euro in più perché i vecchi gettoni sono stati aboliti. Ma, soprattutto, ha paura di finire coinvolto in qualche inchiesta, con effetti negativi per la carriera. Meglio rimanere allineati e coperti. Qui il codice degli appalti c’entra. Non come causa della fuga dei commissari, ma come possibile rimedio. La riforma stabilisce che i commissari debbano essere scelti non tra i funzionari della stazione appaltante, ma all’interno di un apposito albo curato dall’Autorità anti corruzione. Il decreto attuativo, però, non è ancora arrivato al traguardo. Sarebbe anche ora.