Il Messaggero, 23 settembre 2017
La grande impostura del banchiere di Dio
La dura lezione impartita da alcune banche italiane agli sfortunati risparmiatori è sembrata, a molti, un fulmine a ciel sereno. In realtà l’attitudine di certi finanzieri spregiudicati a incamerare, o a dissipare, i depositi altrui, è tanto antica quanto diffusa. Gli americani hanno avuto Maddoff, che sta ancora scontando i suoi centocinquant’anni di galera. Noi abbiamo avuto Giuffrè, morto povero dopo una vita ricca di inganni e di truffe. Non pagò i conti della giustizia umana. Chissà se li ha regolati con quella divina, visti i suoi agganci privilegiati: quelli che lo fecero definire il banchiere di Dio:
Giovanni Battista Giuffrè era un intraprendente ragazzo romagnolo che entrò giovanissimo, tra le due guerre, al Credito di Imola, con il ruolo, apparentemente scialbo, di cassiere. In realtà si attivò in vari settori dell’Istituto, eccedendo le sue competenze, tanto da suscitar sospetti tra i suoi occhiuti superiori. Finchè, nel 1949, lasciò il posto per occuparsi, come consulente dell’amministrazione dei beni di vari istituti religiosi. Era un uomo paffutello e baffuto, di scarsa cultura e di rustica furbizia. Aveva una vaga somiglianza con l’onorevole Fanfani, che sarebbe diventato il suo peggior nemico. Assiduo praticante, mescolava sapientemente la docilità devozionale con l’ambigua disinvoltura di un consumato usuraio. Sotto il saio di San Francesco teneva la borsa di Shylock.
ESPERIENZA
Dalla sua modesta esperienza bancaria aveva evidentemente appreso due cose: che non esisteva un efficace sistema di vigilanza, e che quella poca che c’era poteva esser ammorbidita da convenienti amicizie politiche. Con questo viatico non propriamente evangelico mise in piedi un sistema collaudato da secoli, e purtroppo ancora attuale: quello che la Finanza chiama schema Ponzi o marketing piramidale, e che tutti conoscono come la più nota Catena di Sant’Antonio. Il sistema Ponzi è chiamato così perché negli anni venti Charles Ponzi, un romagnolo (anche lui) emigrato a New York, truffò milioni di americani remunerando i prestiti con i capitali di altri finanziatori. In pratica funziona così: si promettono tassi altissimi, e così si acquisiscono clienti nuovi, che versano somme con le quali il banchiere paga gli interessi ai clienti vecchi. Naturalmente la catena ad un certo punto si rompe, lasciando con il cerino in mano i malcapitati che ne hanno costituito l’ultimo anello: quelli cioè che chiedendo la restituzione del capitale si sentono rispondere che questo è svanito.
Giuffrè si rivolse al vasto mondo delle congregazioni e degli enti cattolici: attinse soldi da alcuni, e li distribuì (in parte) ad altri, guadagnandosene, temporaneamente, la riconoscenza e la fiducia. Gli opuscoli diocesani della zona ne magnificavano le virtù quasi teologali: l’incrollabile fede, la beata speranza e, soprattutto, la straordinaria carità. Fu definito apostolo di Cristo e saggio amministratore di magnifica munificenza. Un bollettino proclamò che se anche gli uomini tacessero, di lui parlerebbero le pietre. In effetti l’Istituto dell’Addolorata di Cesena gli dedicò una lapide di marmo a perenne gratitudine delle ancelle del Sacro Cuore.
Se l’Addolorata di Cesena si manifestò entusiasta, ben più laceranti dolori furono invece inflitti ad altri Istituti cattolici, che avevano affidato la gestione delle loro risorse a questo mite baciapile con la faccia da curato campagnolo. La Commissione Parlamentare di Inchiesta, istituita nel 1958, fece un po’ di conti: erano stati coinvolti 302 enti religiosi e 181 laici, per un giro d’affari di vari miliardi. Miliardi dell’epoca, pari a varie centinaia di milioni di euro odierni. Il nostro Ponzi di periferia aveva imparzialmente truffato membri del clero secolare e regolare: i più colpiti furono i cappuccini che gli avevano consegnato cifre colossali. La carità del munifico amministratore si era rivelata una gigantesca partita di giro, a beneficio di alcune tonache e a danno di molte altre.
IL SOSPETTO
Naturalmente molti sospettarono lo zampino politico. Si disse che dietro i denuncianti stava lo zampino di Fanfani, e che dietro Giuffrè manovrava il solito sulfureo Andreotti. Fu anche istituita una Commissione Vaticana, che naturalmente non approdò a nulla. Quanto a quella Parlamentare, come tutte le precedenti e le successive, scrisse molto e concluse poco. Alla fine ammise, costernata, che non c’era nulla da fare, e che Giuffrè non poteva nemmeno esser processato. La legge infatti puniva l’abusiva raccolta del risparmio unita alla gestione del credito. E il banchiere di Dio – secondo la Commissione – aveva esercitato la prima ma non il secondo. Quanto ai denari, erano tutti spariti. Giuffrè alla fine non godette pienamente i frutti della sua monumentale bancarotta. Morì abbandonato in un ospizio, quasi in miseria, alcuni anni dopo. Ma lo Stato si attivò. Ammonito dai salutari precetti della Commissione, che aveva appunto lamentato la grave carenza normativa, sfornò leggi, regolamenti, circolari, testi unici, codicilli, conversioni, interpretazioni e integrazioni per impedire la raccolta abusiva del risparmio e potenziare la vigilanza su banche e società che ne gestivano l’erogazione. Se questo gigantesco arsenale di parole abbia funzionato, lasciamo il giudizio al lettore. Ma alla luce dei recenti avvenimenti pare proprio di no.