Libero, 22 settembre 2017
Wall Street dà una mano a Trump
Alle spalle ha 101 mesi di rialzo, ma non li dimostra. Sono infatti trascorsi 101 mesi dal marzo 2009, quando l’indice S&P 500 precipitò a quota 666, il numero dell’Apocalisse che ben s’addiceva al disastro che aveva investito Wall Street per poi contagiare tutta l’economia mondiale. Altri tempi. Lunedì sera, poche ore prima che i governatori della Fed si riunissero per dare il via al piano per la riduzione del bilancio della banca centrale cresciuto in questi anni per far fronte alla crisi, il mercato azionario Usa ha chiuso oltre la barriera dei 2.500 punti, ovvero il 270 per cento in più.
È una performance stellare, quasi irripetibile, tanto da superare quella del secondo dopoguerra: +267 per cento dal giugno 1949 all’agosto 1956, l’anno della crisi di Suez e dell’insurrezione di Budapest. Solo alla fine degli anni Novanta, quelli della Bolla Internet e dell’«esuberanza irrazionale», come la definì il premio Nobel Robert Shiller, si sono visti numeri del genere. Ma, a differenza di allora, il Toro, simbolo del rialzo, ha tutta l’aria di voler correre ancora. Anzi, accelera. Da venerdì scorso a ieri i tre principali indici americani hanno messo a segno una raffica di primati storici, cinque (fiora) il solo Dow Jones.
Ma non è solo questione di cifre. A differenza della stagione della Bolla, il rialzo può contare sul contributo di più settori. Al boom dell’economia digitale e dei giganti di Internet, infatti, si è aggiunto il contributo della finanza, che ha superato brillantemente i test sulla solidità del patrimonio (promosse 24 banche su 25) e si accinge a sfruttare il propellente dei tassi in ascesa (un’ottima notizia per i titoli in magazzino) e la prossima cancellazione di parte delle regole, le più costose, introdotte dopo la crisi.
Ma anche l’industria manifatturiera sembra godere di buona salute, al traino dei consumi, in ascesa assieme all’occupazione. Certo, non mancano i perdenti, a partire dai grandi magazzini piegati dalla concorrenza di Amazon. Ma la locomotiva Usa acquista velocità sotto la spinta del petrolio pompato a pieno regime dall’Oklahoma al Texas piuttosto che degli investimenti che affluiscono neli States, magari al seguito di Foxconn, la ditta di Taiwan che produce gli smartphone di Apple che si accinge ad aprire una fabbrica da 3 miliardi di dollari in Wisconsin. O del tycoon giapponese Masayoshi Son, proprietario del gestore telefonico Sprint, che sta per convolare a nozze con T Mobile.
Si tratta di un’operazione già osteggiata dalle autorità ai tempi di Obama, ma non da Donald Trump. Mayasoshi son, infatti, gode del sostegno del presidente perché gli ha garantito che la maggior parte del gigantesco fondo tecnologico (100 miliardi di dollari) da lui creato assieme ai Sauditi verrà investito in Usa. E Trump, alla costante ricerca di capitali ed investimenti per rilanciare l’industria Usa non si è fatto scampare l’occasione. E così si spiega in buona parte il segreto della durata del boom di Wall Street. Dopo la stagione della ripresa grazie all’abbondante liquidità immessa dalla Fed (ed ai provvedimenti eccezionali per ridare ossigeno all’economia), il rally è oggi alimentato dal pragmatismo di Donald Trump.
Il presidente non è ancora riuscito a far decollare la riforma fiscale (possibile propellente di nuovi rialzi) e ha subito più di uno stop al Congresso. In cambio, però, finora ha gestito gli affari con un occhio di riguardo per il business, sia dei grandi che delle piccole e medie imprese, espressione dell’America che l’ha votato e che si accinge a comprare le quote del Maga fund, il fondo di investimento nato non a caso) in Texas e che si rivolge agli elettori di Trump, promettendo di investire solo nelle imprese che finanziano il partito del Presidente, così come risulta dalla lista dei contributi (di pubblico dominio come impone la legge Usa). La soglia di ingresso è di soli 10mila dollari, le commissioni di gestione di 72 dollari soltanto, a conferma che i promotori puntano alla classe media e medio-bassa, quella delle tute blu che hanno portato Trump alla Casa Bianca. E vogliono che ci resti.