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 2017  settembre 24 Domenica calendario

Luigi Di Maio scelto perché di destra

Quando ancora il Movimento 5 stelle tentennava sulla partecipazione ai talk show che era esclusa in base al regolamento con cui erano stati eletti nel 2013, Luigi Di Maio accettò a sorpresa di salire su L’Abitacolo, una video-trasmissione della web tv di Libero girata a bordo di una Smart. 
Erano i primi di marzo del 2014, e già si pensava alla campagna elettorale per le europee, che sarebbe stata una terribile doccia fredda sulle ambizioni di Beppe Grillo e l’unico vero successo di Renzi, con il Pd che superò il 40%. A un certo punto a Di Maio chiesi quale sarebbe stata la prima cosa che avrebbero fatto se gli fosse capitato di andare al governo. Lui non tentennò un secondo: «La prima cosa che si dovrebbe fare è individuare risorse per detassare le imprese. Vengo da una città del Sud Pomigliano d’Arcoche era la Stalingrado del sud per la sinistra. Ho visto troppo spesso in questi anni mettere le parti sociali lavoratori e imprenditori l’una contro l’altra, quando se invece si fossero uniti avrebbero aiutato sia l’impresa che l’occupazione. La prima preoccupazione dovrebbe essere quella». 
Poi al secondo posto mise un cavallo di battaglia del M5s: «Credo che si debba iniziare a trovare risorse per iniziare a parlare di reddito di cittadinanza perché siamo in un momento di crisi e anche se vogliamo tornare a crescere abbiamo bisogno di ammortizzatori per due o tre anni che salvino chi ha perso tutto in questi anni». Forse in quelle parole c’è la ragione per cui Di Maio è diventato il solo candidato premier possibile per il M5s. Il motivo è semplice: quelle parole non le avreste sentite da nessuno degli altri leader possibili del movimento. Non sarebbero mai venute in mente come prima risposta né ad Alessandro Di Battista, né a Roberto Fico, Roberta Lombardi o chiunque altro dei personaggi più noti della squadra di Grillo. Quella risposta sarebbe stata invece naturale se si fosse fatta la stessa identica domanda a un esponente di centrodestra. 
COMPAGNI A 5 STELLE 
Il M5s è arrivato in Parlamento nel 2013 portando molti esponenti che un tempo avresti inquadrato nelle categorie politiche della sinistra movimentista e alternativa quando non antagonista. Culturalmente erano cresciuti anche quelli più giovani a pane e terzomondismo, ecologia, no Tav, diritti delle minoranze e battaglie contro i privilegi delle caste. Tutti temi che però non sono maggioritari in Italia, e da soli non sarebbero mai stati competitivi per una forza di governo. Arrivati a Roma i grillini hanno avuto le loro stagioni, contrassegnate da quella regola degli incarichi a rotazione. All’inizio sembravano leader i due capigruppo, Roberta Lombardi (Camera) e Vito Crimi (Senato), anche perché furono protagonisti degli incontri istituzionali al Quirinale e delle trattative di Bersani che li avrebbe voluti con sé al governo e invece ne uscì ridicolizzato. Ma ben presto i due astri tramontarono e furono sostituiti da altri. Poi cadde il divieto di partecipazione ai talk show e chi aveva più armi e presenza è venuto fuori. Di Maio dimostrò di sapersela cavare anche in quel campo, ma soprattutto fece la scelta o se non dipese da lui ebbe la fortuna di ottenere un incarico istituzionale sottratto alla rotazione prevista, come quello del vicepresidente della Camera dei deputati che ha conservato per tutta la legislatura. Non è un caso se gli unici due che hanno conquistato un incarico permanente (l’altro è il presidente della commissione di vigilanza sulla Rai, Roberto Fico) alla fine sono nel ristretto gruppo di quelli che svettano rispetto alla media. Il solo nel movimento ad essere emerso indipendentemente da questo è Di Battista, il più bravo per capacità oratorie e tribuno del popolo naturale. 
Di Maio ha poi avuto anche un incarico all’interno del Movimento che è stato rilevante come quello della responsabilità degli enti locali. È lì che ha pestato più bucce di banana, dal caso Pizzarotti al traumatico inizio di Virginia Raggi a Roma. Però allo stesso tempo è divenuto un riferimento fisso della ossatura stessa del Movimento, dovendo riferirsi a lui tutti gli eletti negli enti locali. 
L’esperienza delle amministrative ha dato anche una lezione ai grillini: dove sono riusciti a vincere, è avvenuto quasi sempre grazie all’appoggio nei ballottaggi ricevuto dall’elettorato tradizionale di centrodestra. In questi anni il M5s è stato il vero antagonista del Pd, e già questo aspetto faceva simpatia nell’elettorato che prima votava Silvio Berlusconi o Gianfranco Fini. Per consolidare questo dato evidente anche la linea grillina è cambiata svoltando a destra su temi come immigrazione e sicurezza. Di Maio che era il solo nel gruppo di comando a non avere alle spalle una storia terzomondista e di sinistra è stato l’unico speaker possibile di questo cambio di linea. 
Anche su temi diversi il M5s con Di Maio in prima linea non era così lontano dall’elettorato di centrodestra. Basti pensare che Berlusconi solo alla vigilia di Natale 2016 disse: «Noi, con il M5s condividiamo quel reddito di cittadinanza nei confronti dei cittadini che non hanno entrate, e questa è una delle prime preoccupazioni che dovremmo avere: ci sono in Italia 4 milioni e 600mila cittadini che non hanno alcuna entrata. Secondo i nostri calcoli il reddito di cittadinanza costerebbe 16 miliardi di euro...». 
Allora il Cavaliere non aveva ancora l’idea di una competizione diretta con il M5s, e si spendeva pure in elogi per la capacità di Di Maio e perfino Di Battista di parlare in tv. Quando poi ha capito che bisognava fare tornare a casa l’elettorato di centrodestra affascinato da quei due, Berlusconi ha svoltato: il reddito di cittadinanza è diventato pochi mesi dopo una follia che costa 90 miliardi di euro e quella coppia di grillini si è trasformata in fannulloni che non hanno mai dimostrato di sapere lavorare nella vita. A dire il vero Di Maio pur essendo così giovane è pure un piccolo imprenditore, azionista al 50% con la sorella (ma l’amministratore è un altro fratello) della piccola azienda di costruzioni edili della famiglia: la Ardima srl di Pomigliano. Ma certo prima di essere eletto (a 26 anni) alla Camera non ha avuto grandi esperienze, e questo per chi si candida premier è un punto di debolezza. Come tutti per altro dopo 5 anni passati cavalcando in primo piano le cronache politiche, ha perso quella caratteristica di freschezza e novità che aveva davanti all’elettorato: si diventa assai in fretta con una politica così mobile, un po’ anziani, e ne sa qualcosa Renzi che più di ogni altro ha perso quella carica. 
DEBOLEZZE 
Non mancano altri punti deboli in Di Maio. E qui bisogna capire se il fianco scoperto è il suo, o piuttosto bisogna risalire ai suggeritori che gli stanno intorno. Dalla Palestina al Venezuela hanno fatto scalpore le sue gaffes di politica estera. Così come dall’università di Harvard allo studio Ambrosetti di Cernobbio passando attraverso incontri con esponenti della diplomazia o della industria e finanza internazionali sono state assai divisive le sue incursioni nel cuore dei cosiddetti poteri forti in cerca di improbabili accreditamenti per una forza nata anti-sistema. Ma anche recentemente è scivolato su una cosa perfino più seria e sfuggita ai media. Celebrando il decennale del vaffa di Grillo a Torino, intervistato da Marco Travaglio, il futuro candidato premier a 5 stelle con enfasi ha sostenuto orgoglioso che «a Roma abbiamo fatto una scelta per l’Atac che deve diventare un modello per tutta Italia: il concordato preventivo, il controllo di un tribunale, la legalità». Pace per i creditori dell’azienda romana che hanno lavorato o fornito materiale per 100 e invece riceveranno 50-60 o nella migliore ipotesi 80, perdendo del loro. Ma se il concordato preventivo diventa il modello da esportare in tutta Italia, c’è da toccare ferro, perché quello è il male minore per un’economia fallita, ma non può essere la bandiera di un paese normale. Qualcuno glielo ha fatto notare dopo. Sulle prime ha difeso quel che aveva appena detto. Poi ha capito e si è corretto: «»Assolutamente meglio avere aziende sane che fanno utili e pagano regolarmente al 100% i creditori». 
GLI UOMINI DI GIGGINO 
La domanda è quella: è stata farina del suo sacco, o è stato chi gli era intorno a spingerlo al passo falso? Se si guarda al suo staff la persona più determinante per il Di Maio degli ultimi anni è senza dubbio stata quella di Vincenzo Spadafora, che ufficialmente è il responsabile delle relazioni istituzionali del vicepresidente della Camera. Spadafora forse non è notissimo ai più, ma è uno dei grandi navigatori del bosco e del sottobosco del potere italiano, con qualche relazione anche oltreconfine. Ha attraversato tutto quello che era possibile: collaboratore dell’ex verde Alfonso Pecoraro Scanio, poi con Francesco Rutelli ai Beni culturali, grande amico di Angelo Balducci, l’uomo che prima di finire in disgrazia era il più riverito e potente della burocrazia italiana, poi una nuova stagione di legami con il Pdl, l’ottimo rapporto con Mara Carfagna, gli incarichi istituzionali da presidente dell’Unicef e poi da Garante per l’infanzia, l’aggancio alla nuova stagione che sembrava aprirsi con Luca Cordero di Montezemolo e la sua Italia Futura che seguì Mario Monti fino alla nuova vocazione grillina grazie all’accoglienza del suo conterraneo Di Maio. Oggi Spadafora è l’ombra discreta del candidato premier del M5s, ed è sempre spuntato alle sue spalle in tutte le incursioni in altri ambienti: c’era ad Harvard come a Cernobbio. Dentro il Movimento questa presenza un po’ ingombrante è stata notata anche con qualche preoccupazione, tanto più che se c’è una buccia di banana su cui al vicepresidente della Camera è capitato di scivolare è stata proprio quella del suo giudizio sulle persone estranee alla storia grillina, come dimostra anche il caso di Raffaele Marra a Roma. 
A questa tendenza di fidarsi un po’ troppo dei collaboratori che incontra, Di Maio unisce quell’altro punto debole secondo i critici: la competenza. È una delle contraddizioni della politica: non si può chiedere rinnovamento e volti nuovi e poi quando li trovi accusarli di inesperienza. È ovvio che all’età di Di Maio non puoi avere chissà quale esperienza. Lui ne è consapevole, e a dire il vero ogni tanto studia, o almeno si fa spiegare dagli esperti quello che non sa. Non si è perso quasi nessuno dei numerosi seminari anche parecchio noiosi organizzati nell’aula dei gruppi parlamentari con grandi esperti di vari argomenti (lavoro, giustizia, politica estera, sicurezza, etc...) proprio per trovare temi e consigli da inserire nella griglia programmatica del M5s. In questo è assai simile a Renzi, e come lui ha lo stesso problema: selezionare consigli e consiglieri, in modo da imparare quelli giusti ed evitare di finire nei guai...