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 2017  settembre 24 Domenica calendario

La cognizione del colore

“Ho gli occhi foderati di prosciutto”: il sospetto che questo libro di quieta genialità infonde al lettore non è una sensazione del tutto spiacevole, perché il libro si legge come si ascolta una conversazione e poi perché è lungo ed esauriente. Promette quindi di lenire, una volta che lo si sia letto, quel socratico senso di “sapere di non sapere” (anzi di “vedere di non vedere”) che ci inducono i suoi primi capitoli. Ci siamo mai accorti che il concetto di “tinta unita” era pressoché sconosciuto all’antichità, che quello della Coca Cola non è sempre stato il “vero rosso”, che capiamo che un signore ha i capelli grigi e invece il bimbo che tiene in braccio è biondo da una fotografia in bianco e nero in cui il colore dei capelli dei due è, allo spettrofotometro, identico? E abbiamo mai riflettuto su quanto profondamente la nostra stessa percezione dei colori abbia a che fare con la cultura (nel senso più vasto), con simbolismi e stereotipi che magari consideriamo naturali quando si sono incardinati per ragioni (economiche, sociali, tecnologiche, politiche) precise ma, a volte, del tutto casuali?
Riccardo Falcinelli, graphic designer molto noto in campo editoriale (minimum fax, Einaudi-Stile libero, Laterza, Carocci), aveva già trovato uno stile espositivo personale nella sua Critica portatile al visual design (Einaudi-Stile libero, 2014): un testo/test, in cui la scrittura – che accomuna in un tono sempre discorsivo osservazioni, aneddoti, notizie, teorie, sinestesie musicali e culinarie – scorre accanto a montaggi di immagini su cui il lettore-spettatore può sperimentare immediatamente quello che le parole possono solo limitarsi a dirgli.
Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo (Einaudi-Stile libero, 472 pagine, 24 euro) è il suo nuovo libro, e se possibile è ancora più ricco del precedente. Gli accostamenti delle immagini possono riguardare matite e pietre preziose, una sedia di Philippe Starck e un frammento di vetrata di Chartres, un dipinto del Sassetta e un tubetto di dentifricio. Non vanno però attribuiti a volontà di stupire, anche perché, nei flussi di informazione visiva che ci raggiungono, alto e basso sono associati in continuazione: “Confrontare Giotto con i Simpson è quello che accade ogni giorno quando entriamo in Internet”. La verità è che a richiedere simili comparazioni è proprio il metodo espositivo di Falcinelli, perché l’oggetto del suo libro non è solo il colore ma, più in dettaglio, il nostro sguardo sul colore. Il giallo del manto di Giuda è lo stesso di quello dell’incarnato dei Simpson, ma i loro significati e (ancor più) le rispettive funzioni sono differenti. Però “chi ha conosciuto il colore della televisione non può più vedere il mondo con gli occhi del passato. Magari non ne siamo consapevoli fino in fondo, ma abbiamo in mente il giallo dei Simpson anche di fronte a un affresco del Rinascimento”.
I capitoli raccolti nelle quattro parti principali del libro (Sguardi, Storie, Artefatti, Percezioni) hanno tutti il nome di un colore seguito da un aggettivo (“Rosso unito”, “Nero articolato”, “Indaco spettrale”...), in probabile omaggio criptico ad Andrea Pazienza e alle sue storie di Zanardi Giallo scolastico e Verde matematico. Dal “Giallo industriale” del primo capitolo al “Giallo Giuda” dell’ultimo, prima di epilogo e appendici, si dispiega non una linea ma una vasta regione di campi multidisciplinari e paesaggi cangianti, in cui Falcinelli ci invita a girovagare, con un punto di partenza molto preciso: “prima della chimica il colore è stato innanzitutto una materia preziosa”.
Nell’antichità ogni colore era strettamente connesso alla sua origine. Tracce di questo legame fra il colore e la sua fabbricazione si trovano in nomi come “Terra di Siena” o “Blu oltremare”. Quest’ultimo era ricavato dai lapislazzuli di provenienza orientale, e a “lapislazzulo” è legata la radice della parola italiana “azzurro”. Nelle lingue che conoscono solo due “colori” questi sono il bianco e il nero (che colori, in realtà, non sono); in quelle che ne conoscono tre, il terzo è sempre il rosso. Questo succede perché il rosso si ricava dalla terra ed è stato il primo colore facilmente producibile già nella Preistoria (i bisonti di Lascaux sono rossi). Se il porpora connota invece maestà e aristocrazia è perché “ci vogliono quasi dodicimila conchiglie per fare un paio di grammi di porpora. Nel III secolo una libbra di lana tinta vale tre anni di salario da fornaio”. Raro, dunque prezioso, dunque simbolo di preziosità.
Dopo Isaac Newton, il colore appartiene per noi a un continuum (lo “spettro”), riproducibile con pigmenti sintetici, categorizzato nel campionario Pantone.
Attorno a questo asse fra colore antico e colore moderno hanno poi agito la ricerca artistica e teorica sui contrasti, i passaggi dalla variegatura alla tinta unita (cioè dalla natura alla produzione industriale in serie), dal libro miniato al bianco e nero gutenberghiano e poi alla stampa in quadricromia, dalla pittura a olio al technicolor.
Ma dall’epoca in cui Omero parlava del “mare del colore del vino” a cambiare, più che i colori, è stato il nostro sguardo. La loro azione, perlopiù subliminale, è governata dalla maestria dei pittori, dei designer, dei registi (Falcinelli conduce un’analisi appassionata del ruolo del rosso e del verde nella Donna che visse due volte, di Alfred Hitchcock) ma anche degli scrittori (gli abiti blu in Goethe e in Flaubert). Le banalità del linguaggio floreale (verde speranza, giallo gelosia), che pure ha remote radici alchemiche, non costituiscono però una teoria del colore. Quella che ci vorrebbe, conclude Falcinelli, è “un’antropologia della visione in cui i vecchi parametri che oppongono la biologia alla cultura fluiscano gli uni negli altri senza rigide distinzioni. Allo stesso tempo non bisognerebbe trascurare che ciò che sembra innato, organico o biologico non è mai staccato dalla Storia, dalla società e dalle sue pratiche”. Un esempio: “Il daltonismo viene diagnosticato solo nel 1794 poiché prima della diffusione massiccia di oggetti colorati passava per lo più inavvertito. Per quasi due milioni di anni gli uomini non si sono accorti che alcuni di loro non vedevano bene alcune sfumature, cioè non lo hanno mai pensato come un difetto. Il daltonismo è dunque una condizione ‘innata’, ma che non esisteva concettualmente prima di un preciso momento storico”.
Questa antropologia sarebbe anche una semiotica. Per introdurci a essa Falcinelli ha scritto, ma ha anche mostrato, la sua cognizione del colore.