la Repubblica, 24 settembre 2017
Il sangue del Santo, termometro di Napoli
Quando la bomba cadde sul duomo, le ampolle col sangue di san Gennaro esplosero in mille pezzi. E con esse si infranse ogni speranza dei napoletani di sopravvivere a quella guerra senza fine. La notizia si diffuse in un istante, col boato della deflagrazione. “’O sanghe, ’o sanghe”, un coro biascicante montò dal ventre della città giungendo alle porte della chiesa, dove gente disperata si stava raccogliendo per avere notizie. “Nonostante i milioni di morti sparsi in tutta Europa, sembrava che neppure una goccia di sangue avesse abbeverato la terra. Ed ecco, all’annuncio che le due preziose teche erano state infrante, (…) pareva che tutto il mondo fosse coperto di sangue, pareva che tutte le vene dell’umanità fossero state tagliate per dissetare l’insaziabile terra”.
Così Curzio Malaparte ricorda una voce, rivelatasi fortunatamente infondata, che si diffuse nella tarda estate del ’43. Integra è difatti sempre rimasta la teca, da cui dipenderebbe l’esistenza stessa della città. E in ciò quel diafano palladio avrebbe sostituito un’altra ampulla vitrea in cui le leggende medievali narrano che Virgilio, un po’ poeta e un po’ stregone, avesse collocato una ymago di Napoli. Finché fosse rimasta intatta, nessuno avrebbe avuto da temere.
Ma per esprimere la propria potentia il sangue del martire, a differenza dell’immaginifico dispositivo virgiliano, non ha dovuto solo sopravvivere. Bensì vivere. Ossia liquefarsi nelle festività previste, consacrando non tanto i vecchi re, quanto coloro che a questi la corona l’avevano appena strappata. Può essere una roulette russa, però. Lo scorso 16 dicembre, per esempio, quell’antico umore, incurante delle implorazioni, ancora gelatinoso come un fegato è stato infine riposto nella casina. Nel tabernacolo cioè che lo custodisce al riparo da occhi indiscreti. E a maggio, nonostante il più ampio rituale che lo ha regalmente portato nella basilica di santa Chiara, si è degnato di liquefarsi in ritardo, tanto che qualcuno, dopo essersi seccato la gola barbugliando il consueto repertorio di giaculatorie, aveva già perso ogni speranza. Normale apprensione tuttavia, molto diversa dal delirio che le attese inducevano in passato.
Come nel 1723. Era una graticola, quel letto. Bruciava più di uno degli avelli infuocati in cui “il solitario Piero” sarebbe stato presto spedito, come, con l’indice teso in direzione dell’inferno, dal pulpito aveva assicurato un gesuita. Perché era stato san Gennaro in persona, dimentico della misericordia che si predicava in suo nome, ad averlo condannato a morte. Materiale e spirituale. E ora Piero si aspettava di venir aggredito per strada ed esser ridotto in pezzi sanguinolenti alla stregua di un agnello sacrificale. Fantasie, le sue? Fino a un certo punto. Tanto che a un ignaro professionista, con l’unica colpa di assomigliargli, era capitato di essere accerchiato da un drappello di lazzari malintenzionati e di aver salva la pelle solo dopo aver chiarito lo scambio di persona. Senza dubbio però il prossimo sarebbe stato proprio Piero. Che non riusciva a chiuder occhio. Così, toltasi la parrucca indossata in tribunale, rimase a guardare le ombre disegnate sul soffitto dalle luci tremule delle candele e a indovinare le sagome dei mostri che lo avrebbero divorato.
Certo, qualche responsabilità l’aveva pure lui, giacché nella Istoria civile del Regno di Napoli, apparsa nel febbraio di quello stesso anno, Pietro Giannone non era stato troppo deferente nei confronti delle vicende della Chiesa, che aveva trattato come una qualunque realtà umana, portatrice di interessi e ambizioni. E ciò aveva causato non pochi travasi di bile tra i curialisti, che si erano apparati a regolare i conti: “muoia l’empio Giannon; e, se fin hora visse a’ danni del mondo, hor paghi il fio”, avrebbero cantato tempo dopo. Un malevolo aveva così individuato un passo in cui Piero pareva dubitare delle attitudini prognostiche del liquefarsi o no della reliquia ed era andato in giro a insinuare, tra un Ave Maria e un Gloria Patri, che quel senzadio avesse negato il miracolo in sé. E che per questo il santo era adirato e se la sarebbe presa con tutti i napoletani, i quali avevano consentito l’affronto. Bastò semplicemente paventare che a maggio quell’organico rubino non si sarebbe sciolto, perché si innescasse una caccia all’uomo, che neanche i governanti vollero o potettero fermare: donde le minacce, le poste urlanti per strada e la conseguente decisione di Giannone di lasciare Napoli, percorrendo in incognito, veloce come il vento, un Regno che, dalle frammentarie notizie giunte dalla capitale, lo dava per spacciato. “E di Pietro Giannone che si è fatto?”, non riconoscendolo, gli chiese addirittura un uomo incrociato in calesse. Forse innervosito da tanto inutile trambusto, il primo maggio il sangue però si liquefece in un batter d’occhio. Giannone non era a Napoli. Né mai più vi sarebbe tornato.
Ribolliva, in quegli anni, la città. E ciò non solo per gli infiniti conflitti, carestie ed epidemie che la stavano lacerando, ma anche per il gorgogliare dei due fluidi, rossi come la paura e la fede, che vi si scontravano per sommergerla. Per secoli, placido, il Vesuvio aveva osservato uomini e donne abbarbicarsi sulle sue pendici. Ma dal 1631, ogni manciata d’anni, come un Moloch mugghiante quel colosso di pietra aveva scosso la terra, rigurgitato bave di fuoco ed esalato polveri che trasformavano il giorno in una asfittica notte. Ed è per questo che, vincolato da un vero e proprio contratto notarile, san Gennaro non aveva mai mancato di intervenire. All’ultimo momento, è chiaro, come quando, proprio nel corso della grande eruzione seicentesca, la teca del suo sangue, brandita a mo’ di croce in un esorcismo, era stata portata al cospetto del demonio in escandescenze e quello, covando vendetta, si era accucciato. Il sangue del martire aveva insomma sobbollito come e più del rigurgito distruttivo del Vesuvio, avendone la meglio. E sì, perché in passato l’enfasi era posta non tanto sulla transizione di fase quanto sulla schiumazione che l’accompagna. “Sanguis ebullit” si diceva.
Ne è passato, di tempo. Il Vesuvio sembra essersi riappisolato. Dal 1944, quando per l’appunto il sangue rimase duro. La qual cosa invero avvenne a maggio, allorché l’eruzione era già conclusa. Non si può quindi sostenere, come spesso accade, che il patrono stesse preannunciando qualcosa, benché in faccende del genere, si sa, il prima e il dopo siano determinazioni dello spirito, non del calendario. Sarebbe comunque bello se ‘ o sanghenapule, per dirla con Saviano, non avesse più nulla contro cui ribollire. Non è così: a prendere il posto del vulcano è stato infatti il demone della criminalità organizzata e dei mille altri problemi della città, che purtroppo non si possono risolvere semplicemente alzando la mano in segno di arresto, come nella statua del santo sul ponte della Maddalena. “Ca ‘ a Maronn’c’accumpagn’”, conclude spesso le omelie il cardinale Sepe, quasi temendo che san Gennaro possa ora non farcela più da solo.
Madre affianco a madre a difesa della città, perché quel vescovo guerriero non è “banalmente” padre dei napoletani: “ognuno a te recorre, ognuno scramma, comme li figlie chiammano la mamma” recita un poemetto settecentesco. E forse per questo lo scorso 19 settembre il sangue è stato estratto già squagliato dalla casina. Com’era da aspettarsi. Nonostante l’opinione di molti, anche scienziati, basterebbe infatti sfogliare i manoscritti Registri dei miracoli, conservati presso l’Archivio storico della Deputazione del Tesoro, per farsi l’idea che quel rosso mistero sia in realtà una specie di “termometro”, come lo chiamava Montesquieu. Senz’altro assai imperfetto, ma tale per cui il sangue – o, per taluni, il miscuglio al suo posto – rimanga più facilmente duro a dicembre, meno a maggio, praticamente mai a settembre. Da questo punto di vista l’ultimo anno ha presentato una sequenza da manuale. Insomma, come, sornione, ricordava Giuseppe Marotta, San Gennaro non dice mai no. Almeno a settembre.