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 2017  settembre 24 Domenica calendario

Il ruolo del Messico

Nell’immaginario nostrano il Messico resta Paese esotico, in perenne via di sviluppo, di modesta taglia strategica. Le carte mentali europee – e la geografia ufficiale delle Nazioni Unite – lo collocano nel Centroamerica, affine più ai Caraibi che agli Usa. Assegnato allo spazio culturale latinoamericano, del quale coltiviamo una rappresentazione folkloristica, di universo affascinante e stordente, seducente e pericoloso. Ingenui semplicismi o maliziose deformazioni, dove il colore soffoca l’analisi. E ci impedisce di cogliere struttura intima e caratura geopolitica del Messico. Segnate dalla prossimità geografica e dall’intrinsechezza storica, economica e strategica agli Stati Uniti. Ciò che incardina il Messico nel Nordamerica, colosso da 25 milioni di chilometri quadrati e quasi 600 milioni di abitanti. Identità continentale rivendicata sin dalla prima solenne dichiarazione di indipendenza dei patrioti messicani dalla Spagna (1813), nei quali la nuova patria si autodefiniva “América Septentrional”.
Visto da Washington, il Rio Grande ( Río Bravo del Norte, per i messicani) non è affatto confine fra due Americhe. È faglia geopolitica interna alla propria sfera d’influenza nordamericana. Valga la brutale formula di Alan Bersin, già border czar al dipartimento della Homeland Security: «Il confine del Guatemala con il Chiapas (Stato del Messico meridionale, n.d.r.) è oggi il nostro confine sud».
Che cos’è davvero il Messico? Una grande potenza in costruzione o uno Stato in via di fallimento? La geopolitica ci informa che oggi il Messico è potente. La sua potenza è funzione di tre fattori. Primo e decisivo, la prossimità agli Stati Uniti. Secondo e conseguente, l’intimità con il dominante vicino. Terzo e paradossale, la fragilità dello Stato.
La contiguità alla superpotenza nordamericana è di norma letta in negativo. Implica uno scambio ineguale in ogni ambito, così limitando la sovranità e ferendo l’orgoglio nazionale del partner minore. Valga il motto attribuito a Porfirio Díaz, uomo forte della repubblica messicana fra 1876 e 1911: «Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti». Ma osserviamo anche l’altra faccia della Luna. Se oltre il Rio Grande si stagliassero, anziché gli Stati Uniti, misere e disputate contrade come quelle della frontiera Sud, per il Messico sarebbe perdita secca. Forse si sarebbe già disfatto, inghiottito nei poco invidiabili gironi mesoamericani.
Quanto all’intimità con gli Usa. Oggi la diaspora negli States è il maggior vettore di potenza del Messico. Non banale comunità di emigrati, utile per le rimesse. Piuttosto, fattore di condizionamento incardinato nel sistema americano. La sua maggiore o minore assimilazione potrà incidere su quanto ogni nazione ha di più prezioso: la coesione. L’innervarsi dei chicanos nei territori “irredenti” (separati dalla madrepatria dopo la conquista americana del 1846-48) inquieta Washington e ne obbliga gli apparati a dedicare al Messico un’attenzione superiore a quella che gli deriverebbe dalla mera taglia economica e demografica. Quando il “Messico di dentro” avrà capito come meglio usare il “Messico di fuori” gli Stati Uniti scopriranno che oltre il Rio Grande non c’è solo un cliente ma un potenziale rivale. Certo non in grado di piegare gli Stati Uniti, ma di contribuire a minarne identità e vocazione imperiale.
Infine il terzo fattore, quello paradossale. Uno sguardo sobrio alla diffusione di corruzione e violenza, al proliferare per gemmazione di milizie al servizio del crimine organizzato, intrecciato con alcuni poteri formali in un vincolo di reciproco ricatto, induce a dubitare dell’efficienza, financo della tenuta delle istituzioni. La repubblica messicana cerca di dotarsi di uno Stato forte e legittimato dal 1824, quando partorì la prima costituzione. Il percorso non è concluso. L’autorevole Consejo Mexicano de Asuntos Internacionales sentenzia: «In Messico il maggior problema non viene dalle droghe né dal terrorismo né dalla violenza; è la mancanza di un governo che governi». Tuttavia i pronostici più neri sul futuro del Messico appaiono esagerati. Non fosse che per un motivo squisitamente geopolitico: gli Stati Uniti non possono permettersi di confinare con un vicino fallito. Un gigantesco buco nero alla frontiera Sud, per di più tanto intrinseco alla superpotenza, è peggio di un rivale strategico.