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 2017  settembre 24 Domenica calendario

Bosch, meno ore o licenziamenti. La crisi simbolo che agita i sindacati

ROMA Una specie di laboratorio italo-tedesco in terra di Puglia. Una sperimentazione sul campo per capire come affrontare le crisi industriali senza più disporre degli ammortizzatori sociali di un tempo, ridimensionati drasticamente dalle riforme targate Jobs Act. In particolare, con la scomparsa della mobilità e l’accorciamento di cassa integrazione e solidarietà. Ma anche un’anticipazione di quanto potrà accadere quando saranno dispiegati gli effetti dell’Industria 4.0.
Alla Bosch di Bari, fabbrica italiana della multinazionale tedesca di componentistica auto, sta andando in scena una vicenda che travalica l’ambito aziendale e locale per assurgere a paradigma delle oltre 160 vertenze (per un totale di 200mila lavoratori) squadernate sui tavoli dove siedono governo, sindacati e imprenditori. E proprio nell’esecutivo si guarda con particolare attenzione a quello che succede nello stabilimento pugliese.
A fine maggio la Bosch, che a Bari produce in prevalenza componenti dei motori diesel, prefigura una drastica riduzione di ordinativi a causa della rapida crescita delle quote di mercato delle vetture ibride ed elettriche e per gli effetti del “dieselgate”: così, ai sindacati vengono annunciati tra i 450 e gli 850 esuberi sul totale di circa 2000 addetti. Con gli ammortizzatori sociali in esaurimento (la Bosch in questi anni, tra cassa integrazione e solidarietà, ne ha fatto largo utilizzo), si tratterebbe di licenziamenti tout court, in parte ridimensionabili con la promessa di trasferire nell’impianto italiano nuovi prodotti. Una preoccupante prima volta per il nostro Paese, dove il paracadute degli ammortizzatori ha evitato negli anni la drammatizzazione delle crisi (con relative tensioni sociali). L’azienda nei mesi successivi ha però sparigliato con un piano che salvaguarderebbe tutti i posti di lavoro: un “accordo ponte” (in sostanza un contratto di prossimità in deroga a quelli nazionali) di cinque anni, in attesa della possibile ripresa del mercato, con la riduzione graduale dell’orario di lavoro da 40 a 30 ore settimanali. In soldoni, un taglio di circa il 20% del salario che, secondo alcune stime, scenderebbe nel quinquennio intorno ai mille euro. La rivisitazione del “lavorare meno, lavorare tutti”, giusto a pochi mesi dal cinquantenario del ’68.
Il rifiuto dei sindacati locali è stato inizialmente netto, anche se con gradazioni diverse tra Fiom, Fim e Uilm: nessuna deroga ai contratti nazionali, semmai tocca all’azienda fare investimenti e diversificazioni. «Bosch ha utilizzato gli ammortizzatori dal 2008 – dice Saverio Gramegna, della Fiom pugliese -. Non può pensare di uscire dalla crisi sulla pelle dei lavoratori. Piuttosto studi un altro modello organizzativo che consentirebbe comunque di risparmiare sul costo del lavoro». Ma ormai si è aperto il dibattito che, appunto, è arrivato fino ai piani alti del ministero dello Sviluppo Economico e dei sindacati. «Gli ammortizzatori non sono scomparsi, li abbiamo solo riformati – sottolinea la viceministro dello Sviluppo Economico, Teresa Bellanova -. Ma è sbagliato continuare ad avere un approccio come se certi strumenti fossero infiniti: le crisi si risolvono con gli investimenti, con l’innovazione. E con il confronto tra le parti». Invece per Maurizio Landini, che dopo anni di leadership alla Fiom è ora nella segreteria Cgil, sugli ammortizzatori sociali bisognerebbe rilanciare: «Su Bosch, intanto, si può pensare ad un riconteggio degli ammortizzatori e alla formazione, con l’azienda che nel frattempo si impegna a investire. Più in generale, è inaccettabile lo stravolgimento determinato dal Jobs Act. Occorre rimetterci le mani, magari con norme interpretative sulla durata degli ammortizzatori». Landini non si sottrae, comunque, alla questione della riduzione dell’orario di lavoro. Introducendo il tema dell’industria 4.0 che, mentre per la Bellanova non significa l’automatica riduzione dei posti di lavoro, per il sindacalista della Cgil ha ricadute da affrontare: «Con l’automazione l’occupazione diminuirà. Dunque lavorare meno, lavorare tutti, ma senza intaccare il salario. La Ig Metall in Germania è già su questa linea». E il riferimento di Landini è evidentemente alla piattaforma del sindacato metalmeccanico tedesco sulle 28 ore pagate full time, della quale si è parlato nei giorni scorsi anche in un incontro tra i rappresentanti di Ig Metall del gruppo Volkswagen (che in Italia controlla Ducati e Lamborghini) e della Fiom emiliana. Su una posizione equidistante il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy: «In Italia aumentano gli occupati ma non la massa salariale. Evidentemente colpa dei contratti a termine e delle basse qualifiche. Prima di arrivare all’alternativa tra licenziamento e riduzione dell’orario, si possono ridiscutere gli ammortizzatori e, soprattutto, vanno fatti investimenti e riorganizzazioni. Solo così, si può eventualmente ragionare di temporanee riduzioni di orario». Gigi Petteni, della segreteria Cisl, chiede infine al governo di «correggere alcune norme sugli ammortizzatori e di investire di più nella politica attiva del lavoro. La riduzione dell’orario? Si pensi anche a sostenere il reddito del part time involontario».